leggere tra le righe (con aggiornamento serale)

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Giulio Mozzi lancia in Facebook un bell’intervento di Carla Benedetti sul senso e sul ruolo del cosiddetto «editor», cioè di quel lavoratore che «aggiusta» i testi di chi scrive prima che essi vengano pubblicati.
Il pezzo è uscito recentemente sull’Espresso.

Sul tema, Il primo amore ospita un dibattito piuttosto ricco, di cui c’è traccia per esempio qui, qui, e qui.

Se non ne forzo il pensiero, la Benedetti dice che ci sono due tipi di azioni che vengono fatte sui testi: la prima è l’azione che lei chiama del «secondo occhio»; l’altra, quella di chi – come dice Buttafuoco, citato nel pezzo – quando «tu cachi diavoli», li trasforma in «angeli del paradiso».

A me questa cosa dell’editing e dell’editor e di quel che sul Primo amore viene definita nel titolo «La superbia degli editor» non sale né scende dalla bocca dello stomaco da parecchio tempo.

Ho esperienza scarsa e limitata del mondo dell’editoria libraria, ma quel poco che ho visto è stato sufficiente a farmi stare parecchio male.
Al netto di tutte le tare egotiche – dalle quali gli editor mi sembrano affetti in misura non inferiore (non inferiore per definizione, intendo) agli autori – mi sento di dire due cose.

La prima – ovvio che sia un’opinione personale, anche se nient’affatto arbitraria – è che vedo persone la cui qualità umana e «tecnica» (nel senso di professionale) è assolutamente incoerente e incompatibile con i libri che a loro firma vengono pubblicati, anche con grande successo e diffusione.
Questo mi fa pensare che esistano degli «editor» che prendono materiale grezzo, seminale e caotico («i diavoli cacati» da chi scrive) e lo trasformano in libri che, forzando le mie categorie interpretative, posso definire «vincenti».
Avevo sempre creduto che fosse una specie di leggenda metropolitana, invece devo rassegnarmi all’evidenza: questi «angelificatori» delle «cacate» esistono; lavorano; producono e determinano (insieme ad altre cose di cui dico dopo) le fortune dei libri (e dei filoni) a cui dedicano le loro cure professionali.

La seconda è che le case editrici (come entità collettive) e le persone che ci lavorano (come individui) sono naturalmente inserite in una rete di relazioni settoriali che ne definiscono il potere, interno ed esterno.

Questo significa che per un manoscritto (così come per ogni bambino!) sono decisivi gli incontri che fa.
Se incontra la persona e/o la casa editrice sbagliate, non c’è granché da fare: quel manoscritto diventerà – se avrà un tasso medio di fortuna – un librino, al diminutivo.

La persona può essere sbagliata per un’infinità di ragioni: perché è millantatrice, incompetente, o anche solo momentaneamente male inserita all’interno o all’esterno di una casa editrice, magari rivale per i motivi più vari con altri colleghi che in quella fase contano di più.

E la casa editrice può essere sbagliata anche perché – uno può non crederci, eppure accade – a dispetto del fatto che la pubblicazione di un manoscritto è stata una sua libera scelta, decide che il libro che ne nascerà non merita accompagnamento, sostegno, vicinanza.

So di casi, per esempio, in cui gli agenti delle case editrici non avevano nemmeno avvisato i librai del fatto che gli autori di cui consegnavano i libri vivevano nella città delle librerie che stavano rifornendo.

Non sto affatto dicendo, è chiaro, che se un libro stravende fa schifo e se un libro è oscuro è colpa delle case editrici.
Dico che ciò che un manoscritto diventa quando finisce in vendita è il risultato degli incroci fra talento, capacità, storie personali, caratteri, potere, veti e vincoli.
Come ogni altra cosa della vita che non si misuri solamente con lo spazio di un unico cuore e di un unico cervello.

Le discussioni sul ruolo dell’editor mi fanno venire in mente i dibattiti sul ruolo del giornalista.
Sono estremamente interessanti e mi appassionano molto. Ma rischiano di essere parziali e insoddisfacenti se non si allungano fino al territorio in cui ci si interroga sulle relazioni di potere che informano di sé il senso delle due professioni.

Un giorno ne parlo meglio, e più a lungo. Ma intanto, capitata a tarda sera (sono le dieci e mezzo passate) sul blog di Mario Fortunato, segnalo questo post che mi sembra avere un suo sobrio e ragionevolissimo perché.

Ne cito una frase, che mi sembra in relazione con quello che ho scritto qui sopra: «Sarei tentato di fare osservare che forse “il grande romanzo italiano” dei nostri tempi è già stato scritto: solo che magari nessuno se n’è accorto. Non è un’ipotesi tanto peregrina. In fondo, per sapere che quel “grande romanzo” c’è già, è stato scritto e pubblicato, dobbiamo dare per inteso che ha avuto un gran bel successo: e così tutti possiamo riconoscerlo. In sostanza, stiamo dando per scontato che il “grande romanzo italiano”, per essere tale, deve essere noto a tutti. Stiamo cioè usando la categoria del successo come categoria di giudizio letterario. Vi pare una cosa seria?».

In effetti, non tanto.