«i love shopping»

Domenica mattina allo Spazio Joy, il Circolo dei Lettori di Verona dell’instancabile Valeria Lo Forte ha inaugurato con una festa la sua sesta stagione.

Valeria e io – come «pezzo» dell’associazione ònoma (che organizza il festival italo-irlandese, ma sta anche organizzando la proiezione di Quijote a Santa Maria in Chiavica a Verona nelle due sere del 10 e dell’11 novembre, alle 20) – abbiamo qualche progetto comune di cui dico dopo.

All’inaugurazione, Valeria ha chiesto a tutti gli «accompagnatori» dei gruppi di lettura di parlare brevemente di un libro che ha cambiato la loro vita.
Io ho parlato di due libri: «L’insostenibile leggerezza dell’essere» di Milan Kundera e «The secret dreamworld of a shopaholic» di Sophie Kinsella. Ebbene sì: un libro considerato di serie B, robaccia da pollastrelle, mi ha cambiato la vita.

Riporto qui di seguito la traccia che ho seguito nell’intervento di domenica mattina.
In coda, qualche parola sulle iniziative che farò/faremo col Circolo dei Lettori, ovvero un gruppo di lettura su due scrittori irlandesi e un workshop di scrittura creativa.

Ecco.

***
I libri, come le persone, possono nascondere tesori, e anche riservare brutte sorprese.
Ho sempre trovato difficile affrontare la lettura dei testi che venivano considerati imprescindibili; qualcosa dentro di me si è sempre ribellato.
D’altra parte, sono gli autori più celebrati a riservare le delusioni più cocenti.

Quando acquisti un libro perché ti piace il titolo non ti aspetti niente di sensazionale.
Ti aspetti la distrazione, un viaggio fuori dal tuo corpo e dentro la tua anima.

Un giorno, però, mi imbattei in «Come un romanzo» di Daniel Pennac, ovvero quel librettino giallo che finalmente ha dato a me e a chissà quanti lettori il diritto di interrompere la lettura di un classico senza sentirci colpevoli.

Così, mi sono finalmente sentita legittimata a leggere quello che mi pareva e piaceva; quello che aveva una bella copertina e un bel titolo, quello che aveva una bella carta, bei caratteri.
Libri che gli amanti della cultura alta definirebbero robaccia di serie b.

A volte si casca male, e a me è successo in gennaio.
Senza saper niente di quel libro, ho comperato in una libreria irlandese un libro con una copertina e un titolo bellissimi, «Fifty shades of grey», «Cinquanta sfumature di grigio»; peccato che di bello – mi è sembrato – ci fossero solo la copertina e il titolo.

E comunque.
Leggevo di tutto.
Erano gialli, noir, thriller, storie familiari, avventure di spionaggio, memoir.
Picasso ha avuto il periodo rosa e il periodo blu. Io ho avuto la fase Woodhouse e la fase Ken Follett, la fase Sue Grafton, la fase Patricia Cornwell, la fase John Grisham. E per dire quanto profondo fosse l’abisso della mia perdizione, ho avuto anche un gran numero di fasi no-name: libri del cui autore non sapevo niente allora, e non so niente ora.
Non scherzo: nemmeno il cognome.

Un giorno, in uno di questi libri di serie b, leggo una frase:

Il nemico non va mai affrontato sul suo terreno.

Non riesco a ricordarmi di quale libro si trattasse.
Poteva essere qualcosa che aveva a che vedere con lo spionaggio, credo.
Ma non so perché, quella frase mi si avvitò da qualche parte nel cuore.
Lì per lì non capii nemmeno perché mi avesse colpito così tanto.
Poi, nel tempo, affrontando vicende professionali ed esistenziali di un certo peso, mi è capitato di ricordare quella frase, e di comprendere che nascondeva un suggerimento prezioso: non bisogna mai, mai e poi mai dare al nemico il vantaggio di scegliere il terreno su cui combatterci.
Se ci viene lanciata una sfida su quel terreno, bisogna immediatamente lasciarla perdere, e spostarla sul nostro.

Credo che la frase mi sia stata di grande aiuto, anche se per capirne il senso fino in fondo ho dovuto attraversare un po’ di mari in tempesta.

Perché butto lì, adesso, questa cosa dei libri di serie b?
Poi ci torno, ma adesso voglio dire un’altra cosa.
Adesso voglio dire che ci fu un’altra frase che mi si scolpì addosso, mi rimase scritta dentro.
È questa (pagina 52).

E se la maternità è l’incarnazione del sacrificio, allora il destino di figlia è la colpa che non si potrà mai espiare.

La frase viene dal libro più famoso dello scrittore praghese Milan Kundera, che io lessi tra l’87 e l’88, quando era uscito in Italia già da due anni.
Non riuscivo proprio a prendere i libri di moda. Dovevo aspettare.

Quella frase accese un faro dentro di me.
Io ero figlia – sono figlia – e non ero ancora madre.
Ero figlia – sono figlia – di una donna che io vedevo arrancare in salita dentro la vita, piena di energia, ma lungo un sentiero di sconfitta.

Percepii per la prima volta che quel che io sentivo verso di lei era colpa, era la colpa dell’essere giovane, piena di fiducia e di speranza. Era la colpa del sapere che l’avrei lasciata indietro, e sarei andata avanti.

Quella frase mi ha fornito la prima occasione della mia vita per affrontare criticamente, tentando perfino di guardarla dal di fuori, la relazione fra me-ragazza-figlia e la donna che è mia madre.

Potrei dire che ho cominciato a diventare adulta leggendo quella frase, lasciando che dentro di me lo spazio destinato a quelle parole diventasse sempre più largo e profondo. Me le cullavo dentro. Ne gustavo il sapore che mi rimaneva in bocca come una mentina quand’è finita.

E come avrei potuto non farmi cambiare la vita da un libro che esaltava la leggerezza – insostenibile, certo – e dichiarava apertis verbis che (pagina 56)

un avvenimento è tanto più significativo e privilegiato quanti più casi fortuiti intervengono a determinarlo?

Come poteva, una ragazza uscita dal liceo, non lasciarsi sedurre da una storia in cui la coincidenza era più importante della faticosa costruzione delle minime condizioni necessarie affinché un evento cominciasse a verificarsi?

Come poteva, una ragazza moralista uscita dal liceo, non pensare che l’enorme rivelazione di quella frase stesse nel fatto che qualcuno, in questo mondo, diceva che il caso – e non la fatica, non lo sforzo, non il dolore – era ciò che concorreva a creare gli avvenimenti indimenticabili?

«L’insostenibile leggerezza dell’essere» mi fece sentire adulta, insomma. Non sapevo quanta fatica – altro che «coincidenza»! – sarebbe stata necessaria perché io diventassi adulta davvero.
Ma leggere che (pagina 61)

la sensualità è la mobilitazione massima dei sensi: si osserva intensamente l’altro e si ascolta ogni suo suono

legittimava ciò che io, a quell’età, di me non sapevo legittimare: la resa ai sensi, l’ingresso nel mondo di chi poteva sentire, percepire, toccare.

La storia d’amore fra Teresa e Tomas è così intensa e incongruente da stordire. E la fotografa Sabina, con le disinibizioni che sbatteva in faccia all’ingenua Teresa, mi faceva rabbia, mi faceva orrore.
E lui, Tomas, irresoluto, solo, distaccato dal mondo, superbo e inconcludente, mi irritava fino al fastidio fisico.
Eppure, quel Tomas aveva qualcosa che poteva far innamorare una donna; qualcosa che poteva far «sentire» una donna.

Capivano perfettamente il significato logico elle parole che si dicevano, ma non sentivano il mormorio del fiume semantico che scorreva in quelle parole. (Pagina 94)

Io avrei tradotto «il mormorio del fiume di senso», invece che «del fiume semantico», perché quello per me è stato il libro del sacrificio, della maternità, della «figlità», della coincidenza e dei sensi. Ma vabbè.

Tradire significa uscire dai ranghi e partire verso l’ignoto.

Solo gli adulti partono verso l’ignoto.
Solo le adulte si domandano se vogliono veramente continuare a vivere la colpa.
Solo le adulte accettano l’idea che quel che accade accade, e va bene così, pazienza se è una coincidenza; anzi: meglio.
Solo le adulte cercano di capire qualcosa dell’Est europeo, e per giunta quando il Muro di Berlino doveva ancora cadere…

E come per molti libri che per me sono stati veramente importanti, io non mi ricordo come va a finire.
Uno potrebbe pensare: ma se non ti ricordi come va a finire, allora vuol dire che il libro è passato come acqua fresca.
No. Vuol dire che dentro aveva mille e mille altre cose che ti sono rimaste attaccate dall’interno.

Aveva un odore, una materialità, aveva personaggi con un corpo, una carne, aveva coesione, aveva una consistenza.

Quando chiudo gli occhi e ripenso all’«Insostenibile leggerezza dell’essere», io riesco a ricordare la luce che c’era quando l’ho letto, l’odore delle pagine, la consistenza della carta; ricordo la sensazione di me dentro un altro mondo, portata via da una mano che non vedevo ma potevo solo sentire.
Cosa c’è di strano, se è così, nel fatto che non mi ricordi la fine?

Ogni libro costruisce le sue gerarchie, e sono gerarchie diverse per ciascuno dei lettori. Entra nella vita del lettore, in quell’esatto momento, quando quello specifico lettore sta facendo esperienza di alcune cose e non di altre, vivendo alcune relazioni e non altre.

L’alchimia che si costruisce fra chi legge e chi ha scritto le parole è così misteriosa che, come in ogni relazione umana, quando si vuole dire la vera verità si può solo dire «con quel libro», o con quella persona, «io sto bene, io sono stata bene. Ero me ed ero qualcun altro, vedevo oltre me, sentivo oltre me, piucchesentivo».

E adesso torniamo ai libri si serie B…
Tra loro ce n’è stato uno che la vita me l’ha cambiata per davvero, e ha segnato la svolta grazie alla quale la mia esistenza si sta da qualche mese completamente rivoluzionando.

Si intitola «The Secret Dreamworld of a Shopaholic», l’ha scritto Sophie Kinsella (che in realtà si vergognava così tanto di quel che aveva scritto da aver nascosto il suo vero nome, che è Madeleine Wickham), ed è stato tradotto in italiano come «I love shopping».

Io l’ho letto – credo – fra il 2006 e il 2007.
La storia è leggera, ma non si può dire che l’intreccio non sia ben costruito.
Questa personaggia che si chiama Rebecca Bloomwood fa la giornalista, insegna alla gente come spendere oculatamente il proprio denaro e come investirlo con profitto, ma lei finisce nella spirale del consumismo più sfrenato, indebitata fino al collo.
E chi la salva? Semplice: un fidanzato ricco.
Un cliché. E pure sgradevole.
Eppure…

«The secret dreamworld of a shopaholic» è stato il primo libro che io abbia letto in inglese senza l’assistenza del dizionario.
Prima, avevo affrontato «Le ceneri di Angela» e mi era piaciuto da impazzire, ma ero andata piuttosto lenta, perché cercavo qualunque parola il cui significato non mi fosse chiaro nemmeno dal contesto.

Con questo testo di chick-lit, invece, mi misi alla prova.
In fondo, era tutto al presente.

È stato un atto di fede in me stessa e di sconfinata fiducia nel potere dell’armonia fra le parole, nella connessione fra chi scrive e chi legge, nel (mio) futuro…
Ho pensato che potevo farcela, e questo è stato ciò che mi ha consentito di farcela, di arrivare in fondo.

È stata una grandissima lezione.
Io potevo.
Io ero in grado.
Io, da donna adulta, potevo fare quello che non avevo mai provato a fare prima.
Io potevo cambiare le coordinate della mia vita. Potevo entrare in sintonia a migliaia di chilometri di distanza con le parole che una persona aveva scritto in una lingua che non era la mia lingua madre.
Sophie Kinsella non aveva in mente nessuno come me, mentre scriveva.
Ma io c’ero.

Leggere in lingua originale è un’esperienza che ai cinque sensi della lettura ne aggiunge altri cinque.
Cambi identità, cambi percezione, cambi sistema di riferimento, entri in una dimensione che non è solo narrativa.
È come l’immersione in una piscina di cui puoi conoscere la temperatura solo istante per istante; non prevedi niente, non conosci il fondale.

Puoi decidere di camminare fino a che tocchi col piede e poi tornare indietro, oppure puoi decidere di nuotare e di non domandarti niente della temperatura e della profondità dell’acqua; puoi scegliere di non preoccuparti se la bracciata non è perfetta.

Quello che conta è che hai fatto un tuffo.

Quest’atto di fiducia in me stessa mi ha consentito di partire alla conquista di una vetta (e quante metafore stanno cozzando addosso l’una all’altra…): l’immersione in una lingua straniera, la generazione di un senso all’interno di un altro ordine sintattico e grammaticale, l’abbandono della lingua madre (e qui torniamo a Kundera), il distacco dagli ancoraggi rassicuranti che toglievano il fiato e l’ossigeno.
Mi ha consentito l’espatrio emotivo, in qualche misura l’espatrio letterario, e – probabilmente – anche l’espatrio fisico.

Non abbiate paura di leggere in lingua originale.
Non abbiate paura di non capire.
Ma soprattutto: non abbiate mai paura di capire. Dopo che si è cominciato a capire niente è uguale a prima, e questo ci spaventa.

Quando si comincia a capire, allora sì che le cose cambiano.
Ci sembra di essere ancora in una piscina, ma in realtà abbiamo preso il mare, e la nostra vita si sta muovendo.

Perché, come disse (forse) Mark Twain, e dopo tutta questa pippa sono obbligata a dirlo in inglese,

Twenty years from now you will be more disappointed by the things you didn’t do than by the ones you did do. So throw off the bowlines. Sail away from the safe harbor. Catch the trade winds in your sails. Explore. Dream. Discover.

Tra vent’anni non sarete delusi delle cose che avete fatto ma da quelle che non avete fatto. Allora levate l’ancora, salpate al largo dando le spalle al porto sicuro, catturate il flusso stabile del vento nelle vostre vele.
Esplorate.
Sognate.
Scoprite.

***

Ora, qualcosa sui progetti col Circolo dei lettori di Verona.

Il 6 e il 20 di febbraio, il 6 e il 20 di marzo, e il 3 aprile condurrò un gruppo di lettura che ho chiamato «L’Irlanda: memoria di donna, memoria di uomo» su «Sei qualcuno?» di Nuala O’Faolain e «Le ceneri di Angela» di Frank McCourt.

Il 9 e 10 febbraio e il 23 e 24 febbraio, poi, condurrò insieme ai professionisti dell’associazione ònoma il workshop «In ogni storia c’è un milione di storie», esperimento secondo me molto stimolante di produzione di storie con l’aiuto di un attore, uno scrittore, un giornalista, un editor e uno psicoterapeuta di scuola sistemica. Per parlarne c’è tempo, ma intanto già mi sento di dire che sarà una bella esperienza.