il dolore e la rabbia

pecore_cis_e_pecore_trans(Non credete di stare guardando il mio dolore. Quello che vedete è il vostro.

Quello che già sapete di provare e quello che avete paura di provare un giorno).

Da quando ho pubblicato la foto con mio fratello e il post in cui parlavo un pochino di me e della mia famiglia sto facendo i conti con reazioni che somigliano tremendamente a quelle con cui ho fatto i conti per tutta la mia vita fino ad ora.
Ne parlo tra un attimo, però.
Ora voglio dire della foto.

Altre volte io avevo scritto di handicap, e con una temperatura emotiva non inferiore a quella del post dell’altro ieri.
Però l’altro ieri c’era la foto.
A mobilitare molte delle reazioni che (anche privatamente) sono arrivate è stata la foto, ne sono convinta.
La differenza l’ha fatta la fotografia.
Di più.
La differenza l’ha fatta la faccia di mio fratello, perché la mia è già comparsa, su questo blog.
È lì a destra; e c’è anche qua e là, a illustrazione di questo o di quel post.

Dunque. Vedere la faccia di mio fratello ha creato una reazione.
Perché?, mi domando.
A parte l’impressione che può aver fatto a chi conosce me (e/o lui), cos’è che ha messo in movimento, quella foto?
Se non l’avessi tagliata, si sarebbe vista dietro, in secondo piano, appena sfocata, mia madre; e a destra, piccolo, si sarebbe visto mio figlio Giovanni.
Sarebbe cambiato qualcosa?
Qual è la forza di quella foto?, mi chiedo.
Mia madre e Giovanni l’avrebbero indebolita?
O il volto segnato di mia madre, con i suoi capelli grigi, avrebbe potenziato un ipotetico «effetto-pietà»?

Sui contenuti delle reazioni, adesso.
Direi che li posso dividere in due.
Da un lato, chi se n’è sentito implicato; dall’altro, chi se n’è sentito estraneo.
Da un lato chi ha detto «mi riguarda», pensando a sé, dicendo di sé, sentendosi interpellato, domandandosi i suoi perché e dubitando di sé; dall’altro chi se n’è chiamato fuori, ragionando di fortuna e di sfortuna, di figli sani e figli malati, collocando se stesso sul versante della sanità e della fortuna, benché in qualche caso toccato da un’episodica familiarità con la sfiga di cui si tratta, ovvero l’handicap (percepito come una «malattia»), o dando per acquisito il proprio status di ex sfigato ora fortunato vindice.

E c’è una parola chiave: dolore (da alcuni connessa alla parola «rabbia»).
Oh, tante grazie Federica per avere mostrato il dolore tuo e della tua famiglia. Che gesto – non so – «nobile»; con la variante «quanta generosità anche se un po’ rabbiosa, ma non importa io ti capisco sei una grande».
Altri l’hanno addirittura visto come un disvelamento salutare dei miei nodi interiori: finalmente butti fuori, cara Federica; forza, ché sei sulla buona strada per «guarire».

Io voglio dire questo: è vero, nella mia storia c’è dolore; è vero, nella mia storia c’è rabbia.
Il dolore e la rabbia ci sono – credo – nelle storie di tutti.
Ma la mia vita è intrecciata di tante e tante e tante cose.
C’è gioia, c’è felicità, c’è tristezza.
Io non sono «poverina».
Non sono mai stata «poverina».
Non più di chiunque altro.
Non più di chiunque coltivi l’effimero piacere di sentirsi al riparo da sfighe di qualunque genere.

La mia vita non è cominciata col post dell’altro ieri.
La rabbia me la son gestita come un po’ tutti: facendo or questo or quello, prendendomi cura di me nel modo in cui mi sembrava che avesse senso.
Il dolore pure: l’ho vissuto, l’ho attraversato, lo attraverso, mi ha ferito e mi ferisce, ma la dialettica è aperta.

Non ha vinto lui. Non hanno vinto né la rabbia né il dolore.
Non mi sono irrancidita; il tempo mi ha ammorbidito, reso più fragile e meno corazzata.
Il che, direi, è la massima vittoria che io possa avere avuto sia sul dolore sia sulla rabbia.

Non ho voluto fare un’operazione di disvelamento pubblico del dolore o della rabbia.
Non è che per gestire la rabbia o il dolore si debba per forza scriverne un post, un saggio, un romanzo, o andare in tv a piangere da Cucuzza (ma non so se c’è ancora).

Io ho scritto perché avevo delle cose da dire sulla base di un’esperienza.

Avevo da dire che per quanta speranza si possa avere, la vita di un handicappato finisce sempre in un istituto, indipendentemente da quanta passione un genitore o un familiare possa impiegare nell’impresa di rendere più autonomo il piccolo di casa che un giorno diventerà grande.

È disvelamento del dolore, questo?
È disvelamento o espressione di rabbia? Oppure: è una specie di lapsus di rabbia?
Io non credo.

Dicevo solo che, in un articolo di giornale ma anche fuori, ci si accontenta della soluzione più semplice – un insegnante di sostegno, un marciapiede con lo scivolo, un fisioterapista, il corso di logopedia… – e ci si autoassolve.
Basta poco, che ce vo’?, diceva lo spot dell’Amref.

E invece no. Ci vuole tanto.
Ci vuole la capacità di comprendere che la vita è complessa, che non ci sono scorciatoie.
Neanche attraverso i disvelamenti pubblici; neanche attraverso l’esposizione delle interiora.

Non credete di stare guardando il mio dolore. Quello che vedete è il vostro.
Quello che già sapete di provare e quello che avete paura di provare un giorno.

(La frase è mia; non è una citazione. M’è venuta in mente mentre scrivevo il post)