nessun der-rìda/1: la dif-ferenza

Credevo di averlo perso, che fosse semplicemente scivolato fuori dalla mia vita in uno dei miei cento traslochi.

O che un giorno, magari, avesse autonomamente deciso di andarsene da me, forse consapevole di quanto fortemente io l’avevo detestato.

E invece, dieci minuti fa, l’ho ritrovato.

Jacques Derrida, «La farmacia di Platone», Jaca Book, prima edizione italiana 1985, prima edizione originale 1972.
Uno dei testi che ho studiato per l’esame di Storia della filosofia.
E l’ho odiato.
Vero che poi con Foucault si rappacificò. Ma non posso dimenticare che ci bisticciò: in questo doveva esserci un perché.
E comunque so benissimo che sto commettendo empietà.

La quarta di copertina dice che il testo di Derrida può essere letto, «sulla scia di Heidegger, come uno dei momenti più rigorosi e fecondi della critica alla metafisica della presenza attualmente al centro del dibattito filosofico».

In tutti questi anni, le parole di Derrida che mi sono tornate costantemente in mente come una sorta di incubo-mantra sono quattro (quattro e mezzo): «La dif-ferenza della differenza».
Su quelle quattro parole e mezzo avevo sputato sangue. Adesso mi riesce difficile credere di non essere stata semplicemente in grado di lasciarle lì com’erano, ascoltandone il suono, e di andare avanti.
Ma in realtà io non sono mai stata capace di mollare una cosa che non capivo. Mi son sempre posta il problema di dover capire tutto.
Ho sempre pensato che fosse mio dovere.

Memore dei miei sforzi, della concentrazione assoluta con la quale ho letto e riletto, sottolineato, gerarchizzato, schematizzato, vergato punti interrogativi a margine dei passaggi più oscuri, ipotizzato possibili interpretazioni alternative alle parti che percepivo più ambigue, ho preso due decisioni.

La prima è che mi rimetto a studiare quel libro – con la mia calma, però – per vedere che cosa mi dice e come mi parla a tanti anni di distanza.
La seconda è che stasera inaugurerò una nuova rubrica che mi farà sentire giovane e stupida come quando ho studiato quel testo.

La rubrica si chiama «Nessun der-rìda», e riporterà brevi stralci del testo «La farmacia di Platone» (che analizza il dialogo platonico «Fedro» sul rapporto tra scrittura e parola), accompagnati o no dalle annotazioni che al tempo in cui studiai il testo scrissi accanto a quegli stralci.

La citazione con cui inaugurerò la rubrica è questa:

Il pharmakon è il movimento, il luogo e il gioco, (la produzione de) la differenza. È la dif-ferenza della differenza. Tiene in riserva, nella sua ombra e nella sua veglia indecise, i differenti e le controversie che la discriminazione vi iscriverà. Le contraddizioni e le coppie di opposti si sollevano dal fondo di questa riserva diacritica e dif-ferente. Già dif-ferente, questa riserva, per «precedere» l’opposizione degli effetti differenti, per procedere le differenze come effetti, non ha quindi la semplicità puntuale di una coincidentia oppositorum».

(Pagine 110-111)

Sul margine sinistro di pagina 110, accanto a «è la dif-ferenza della differenza», a matita c’è scritto «Mi sento una povera scema».
È senza dubbio la mia scrittura.
In qualche modo devo averla risolta, comunque, perché all’esame mi diedero 30.