nessun der-rìda/2: logos, debiti e padri

Jacques Derrida, «La farmacia di Platone», Jaca Book, 1985, pagina 63.

Bisogna dunque procedere all’inversione generale di tutte le direzioni metaforiche, non chiedere se un logos possa avere un padre, ma capire che ciò di cui il padre pretende di essere padre non può stare in piedi senza la possibilità essenziale del logos.

Il logos debitore a un padre, cosa vuol dire? Come per lo meno leggerlo nell’alveo del testo platonico che qui ci interessa?

La figura del padre, come è noto, è anche quella del bene (agathon). Il logos rappresenta ciò cui egli è debitore, il padre che è anche un capo, un capitale e un bene. O piuttosto il capo, il capitale, il bene.

Annotazione mia a margine, a matita: «L’affermazione “il logos debitore a un padre” non è forse l’esatto contrario dell’affermazione “il logos rappresenta ciò cui egli è debitore”?».

Io comincio a pensare (che intuizione sublime e rivoluzionaria…) che l’atto del comprendere debba essere, a volte, un moto viscerale e non cerebrale.
Solo che è estremamente difficile delimitare i contesti in cui le viscere debbano subentrare a supplenza del cervello e viceversa.

Mi sa che il problema fra me e «La farmacia di Platone», anni fa, sia stato qui.
Ora il suo discorso sul rapporto fra scrittura e parola come elementi il primo non vitale né fecondo e la seconda – come posso dire? – fertile, «spermatica» e generativa mi interessa molto; e mi prende le viscere, appunto.
È che da ragazzina mi consideravo vivente dal collo in su, e le viscere mica c’erano.
Se c’erano, facevano molto male, quindi era meglio dedicarsi alla testa.