un libro da leggere a morsi

Scrivo sotto un’alterazione di temperatura emotiva.
Ho appena finito di leggere «Trilogia della città di K.» di Agota Kristof.

Da molto tempo non leggevo un libro a morsi; questo l’ho fatto a brandelli, l’ho masticato, ne ho sputato pezzi, l’ho imbevuto nel latte quand’era troppo duro.

In giro ho letto che si tratta di una storia di guerra; della storia di due fratelli devastati dalla guerra.
A me sembra che la guerra di cui la Kristof scrive sia semplicemente la vita.

I tre distinti romanzi di cui si compone la trilogia sono molto diversi fra loro, ma la mano sicura con cui la loro composizione architettonica è stata creata non parla di studio ingegneristico: parla di alchimia carnale.

Il primo, «Il grande quaderno», è come una grandissima lama che entra molto affilata nel burro senza alcuno sforzo.
Lo leggi senza pause, il coltello trapassa il burro, e poi ti accorgi che il burro era la tua pancia.
Scritto alla prima persona plurale, voce narrante una e bina, sembra acqua e quando è scesa nello stomaco ti rendi conto che era arsenico.


Il secondo romanzo, «La prova», e cioè la separazione della monade Lucas-Klaus (i loro nomi compaiono solo qui), è la parte più allegorica e ambigua; scritta in terza persona singolare, narra della differenziazione e affronta esplicitamente il fil rouge del ruolo e del senso della scrittura: diario, menzogna, ricostruzione, ri-creazione di passati consolatori, materasso su cui dimenticarsi di sé in attesa che riprenda la vita.
È la parte più distesa, narrativamente ampia ma straniante; e capace di mettere in discussione ogni punto fermo narrativamente dato per assodato.

La terza parte, «La terza menzogna», dovrebbe/potrebbe rappresentare l’irruzione della verità. Dovrebbe/potrebbe raccontarci cosa effettivamente accadde; ma dopo essere passati per la lettura delle prime due parti non possiamo più essere sicuri di niente.
Nemmeno del fatto che, come qui viene detto, i due fratelli si sono scambiati i nomi, in un ardito e struggente gioco perpetuo fra la speranza e il dolore di essere sopravvissuti – non alla guerra, ma alla ferocia degli elementi, acqua aria terra fuoco – e il dolore e la speranza di essere morti.
Scritta in prima persona singolare, dà voce all’uno e all’altro dei due fratelli.
E si conclude con un funerale e l’annuncio di un suicidio.

Donne tremende, ghiacciate e ricattatrici; piovre. Raramente, e quasi per sbaglio, tenere e avvolgenti; e subito dopo portatrici di guai e di tragedie.
Uomini ignavi, ambigui, senza coraggio, vermi che si fanno strada negli interstizi della vita.
Bambini-bestia innocenti, grandi e complessi.
Scheletri, bombe, granate, carni aperte, occhi sbarrati, deformità, meschinità, isolamento, abbandono, rabbia, crudele misericordia.

«Favola nera», dice qualcuno.
Eppure, io non ci ho visto niente di nero.
Ci ho visto la vita com’è; perché nel sublime c’è l’orrendo; e nell’osceno c’è il sacro.

Ho letto che qualcuno sostiene che il sesso, nella Trilogia, è una cosa sporca.
Non sono d’accordo.
A me ha dato l’impressione di essere l’energia che ti trasporta al centro della terra.
Il segmento vitalista e informe di un universo pre-religioso; precedente all’Eden e perciò precedente alla dimensione di qualunque possibile peccato originale.

Quanto all’irrazionale ferocia della guerra messa in evidenza da alcuni, a me sembra che essa acquisti a un certo punto una sua parziale (e forse illusoria, ma non importa) comprensibilità in quanto fenomeno politico.
Accade nel momento in cui dall’asfittico rapportarsi uno-a-uno si passa – nel cimitero di K., quando il gruppo di ragazzi si trova a discutere dell’insurrezione – al pensarsi «comunità».
Tutto fallisce; niente ha senso al di fuori di ciò che è.
Ma il transito per la comunità è necessario, anche se l’esito ne potrà essere una nuova e inevitabile introflessione in sé.

Vorrei riuscire a riportare alcune citazioni, prossimamente.
Alcune sono folgoranti.
È un grandissimo libro.
Grandissimo.
E soprattutto nella prima parte, a differenza di altri romanzi che hanno per protagonisti bambini-adulti dai pensieri incongrui, ideologici, non carnali e pretestuosi, emergono le due figure più intense, credibili e narrativamente giustificate di bambini di cui io abbia mai letto.