se non sei «poverino» devi tacere

Al mondo capitano cose proprio strane.
Una mi è capitata fra ieri e oggi.
In estrema sintesi, pare che, a sentire qualche collega, io – lavorando in un giornale dove pagano gli stipendi – non sia abilitata a parlare di giornalismo e a esprimere le mie idee.

Questo sostanzialmente perché, in verosimile omaggio a qualcosa di vagamente simile al populismo:
a) prendo uno stipendio che i precari non prendono, mia colpa gravissima;

b) sono stata a lungo precaria (sette anni) eppure non smetto di dire che la retorica dell’«oh, quanto bravi sono gli sfigati ricattabili che militano nel giornalismo e fanno fatica a mettere insieme il pranzo con la cena», convinta come sono che la ricattabilità – a parte il caso di forza maggiore – sia una questione di moralità, e che chiunque (stipendio o no) sia ricattabile perché chiunque ha qualcosa da perdere, altrimenti non mi spiegherei lo stato miserabile del nostro giornalismo;

c) non ripeto il ritornello che solo i precari sono i veri giornalisti, mentre invece io – dipendente e percepente stipendio – sono una merda perché subisco le censure. Mica come gli sfigati che faticano a mettere insieme il pranzo con la cena;

d) dico che tra i miei colleghi – tra quelli compressi e maltrattati, intendo, anche se prendono lo stipendio – ce ne sono alcuni che hanno tentato il suicidio, che sono in cura per la depressione, che stanno male, che patiscono problemi di salute, e invece dovrei solo dire che stanno benissimo perché prendono uno stipendio e mettono insieme senza sforzo il pranzo con la cena e che cazzo potrebbero mai volere di più.

Che è come dire che nessuno al mondo ha diritto di stare male se c’è qualcuno che secondo parametri altrui sta peggio di lui.

Evidentemente, chi prende uno stipendio non può parlare.
La cosa bella è che a sostenere questi punti sono colleghi che si ascrivono alla sinistra.
Il che spiega – a me sembra – un certo qual numero di cose apparentemente inspiegabili e invece, ragionando un istante, chiarissime.

Chi prende uno stipendio, insomma, se è maschio, ha venduto il culo; se è femmina, ha venduto altre cose.
In più, a sentire sempre gli stessi colleghi che sostengono che io non ho il diritto di parlare, gli unici che – pur dipendenti – hanno il diritto di parlare sono proprio coloro che meno fanno sentire la loro voce quando si tratta di fare qualche battaglia sindacale interna.
Ma son bravi, però, tanto bravi. Son bravi e trattati male, poverini. E tengono la testa così bassa, cari.

In estrema sintesi: uno del quale non si può dire poverino, insomma, non ha il diritto di parlare.
Sono molto contenta di non essere poverina.

Parlo lo stesso, comunque.

Ma con chi voglio io.

E aggiungo solo una cosa: questo è l’ennesimo esempio del brodo di coltura del leghismo, e poco importa che a propagandare simili tesi farneticanti sia gente a cui fa piacere immaginarsi di sinistra.
L’idea di base è sempre quella: se a me hanno tolto qualcosa (o se a me sembra che mi abbiano tolto qualcosa), quel qualcosa dev’essere tolto anche a te, che per il semplice fatto di avere la cosa che a me è stata tolta sei privilegiato. Frega un cazzo, a questa gente, se quel che tu hai è – per ipotesi – un diritto, e che se anche loro lo reclamassero ti troverebbero al loro fianco.
No.
Frega niente.
Loro non ce l’hanno e non lo devi avere neanche tu.
Bestie furiose, siam diventate.
Bestie feroci che fan finta di esser di sinistra.
E in aggiunta alla ferocia, aumenta spaventosamente il tasso di stupidità.