take responsibility for

Seb_Dance_EU_comm(Post lunghetto)

Qualche giorno fa, tentavo di spiegare a una persona uno dei motivi per cui la mia vita professionale nel giornalismo ha conosciuto momenti difficili.

In generale, è vero che è molto meglio spiegare qualcosa a un essere umano alla volta invece che a tutti i lettori – per quanto pochi siano – di una bacheca su Facebook.

Però, a volte può essere impegnativo allo stesso modo.

Uno dei motivi – spiegavo dunque – sta nel fatto che non potevo non sentirmi colpevole io stessa per il tipo di costruzione che il giornale/i giornali mettono al mondo, indipendentemente dal fatto che io partecipassi oppure no alle operazioni giornalistiche che – per via di addizione, oscuramento o sottrazione – davano vita a universi paralleli.

Una delle obiezioni – e non è la prima volta che me la sento fare – è stata, mi è parso, piuttosto feroce: non sei al centro del mondo, mi è stato detto. Ci sono cose che puoi fare e cose che no. Non può, ogni cosa, ricadere sotto la tua responsabilità.

È vero: non sono al centro del mondo, e le cose non ricadono tutte sotto la mia responsabilità. Però.

Ognuno porta la propria responsabilità, e ogni battaglia condotta dall’interno di qualunque organizzazione si concretizza, necessariamente e indipendentemente dalle intenzioni, come una strategia per rimanere all’interno dell’organizzazione, rendendosela più digeribile.

L’esito finale della battaglia può certamente essere una vittoria, e in questo caso restare ha un senso diverso.
Ma in genere le organizzazioni hanno una grande capacità di autoconservazione, perché contano sulla connivenza di coloro che dall’organizzazione immaginano di trarre dei legittimi vantaggi (non scomoderò nemmeno la questione della «servitù volontaria»): è molto difficile che un’organizzazione possa cambiare dal di dentro. Il fattore di cambiamento più probabile è, per come la vedo io, un evento traumatico che irrompe dall’esterno dell’organizzazione.

Ma per tornare a un giornale (e all’impossibilità di modificarlo dall’interno), dunque, tentare di condurre la propria battaglia affinché – a pezzi già scritti e titoli già fatti – un pezzo su un «migrante» che violenta una ragazza non sia accostato a un pezzo che ha per titolo qualcosa di simile a «guerra di civiltà» (l’ha fatto Repubblica online nei giorni scorsi: che cosa brutta); oppure portare all’attenzione dell’assemblea dei colleghi l’esistenza di un problema del quale l’organizzazione ha deciso di non occuparsi, sono entrambi tentativi di stare un pochino meglio dentro un’organizzazione, e – di conseguenza – tentativi di non andarsene.

Io sono convinta che tutto ciò che fa una persona non lasciando un’organizzazione è legittimare quell’organizzazione.

Si può decidere di restare per molti motivi: per il fatto che si è convinti che sia la cosa giusta da fare, per dire; o perché si fanno i conti con la propria necessità di mantenersi, o di mantenere una famiglia.

Ma qualunque sia il motivo per restare, restare significa dire sì all’organizzazione.
Significa prendersi la propria parte di responsabilità in ciò che l’organizzazione fa, dice, rappresenta: senza alcuna relazione con l’effettiva nostra partecipazione a quelle azioni, quelle parole, quei gesti.
Perché se, invece, abbiamo partecipato, allora di tutto quello portiamo anche la colpa.

Non credo che questo significhi vedersi al centro del mondo.
Credo che questo equivalga al sapere riconoscere le proprie responsabilità anche quando esse non si configurano come colpe.

Con tutto il rispetto per chi resta, alcuni preferiscono andarsene.

Dirmi che non posso continuare a credere di essere al centro del mondo proprio nel momento in cui, al contrario, ciò che dimostro di avere molto chiaramente compreso (e accettato, anche se con dolore) è la mia impotenza, a me sembra offensivo.

Dice: ma c’è un «potere di mezzo», quello di non far precipitare le cose.
A questo rispondo con Pascal, uno dei filosofi meno entusiasmanti della storia del pensiero.

Non scegliere se credere in dio o non credere in dio equivale a scegliere di non credere, dice Pascal.
E – si parva licet – rimanere in mezzo fra il legittimare qualcosa e il rifiutare la legittimazione a qualcosa equivale – decisamente – a legittimare la cosa.

L’europarlamentare laburista Seb Dance (nella foto) scrive oggi sul Guardian una cosa che, relativa all’elezione di Trump, alla Brexit e a tutto quello che in termini sociali e politici ne sta nascendo, mi colpisce:

«Throughout this transformation to a new reality the response from many has been to fall over themselves to demonstrate the levels to which we understand this new direction and – terrifyingly – how we will acquiesce to it. Whether it be House Republicans in the US or government ministers in the UK who campaigned for remain, the idea that immigration and internationalism are the roots of all evil is becoming more and more an accepted fact.

When people speak the truth – that immigration has been massively important in contributing not just to our societies but to the health of our economy and public services – they are immediately dismissed as “metropolitan elites”, people who do not understand the way of the world. This idea is a dangerous misrepresentation.

When you start using lies to construct so-called solutions to the actual problems people face day in and out, you end up building an entire machinery of deceit. And so Trump’s travel ban becomes “defeating terrorism”».

Lungo il processo di trasformazione della realtà che ci ha condotto dove siamo, la reazione di molti è consistita nel dimostrarsi impazienti di far capire quanto profondamente comprendevamo questo nuovo vento politico, e – cosa terrorizzante – quanto velocemente riuscivamo ad adattarcisi.
Che si tratti dei parlamentari repubblicani statunitensi o dei ministri britannici che avevano fatto campagna perché gli UK restassero nella Ue, l’idea che l’immigrazione e l’internazionalismo siano alla radice di tutti i mali sta progressivamente assumendo sempre di più la natura di un dato di fatto.

Quando qualcuno dice cose vere – che l’immigrazione ha avuto ricadute enormemente importanti e positive non solo sulla nostra società, ma anche alla salute della nostra economia e dei nostri servizi pubblici – quel qualcuno viene immediatamente zittito come un esponente delle «elite metropolitane», del tipo di gente che non può capire come va veramente il mondo.
Ma quest’idea mette in scena un equivoco pericoloso.

Ogniqualvolta si cominci a far ricorso alla menzogna per costruire ciò che viene presentato come la «soluzione» agli autentici problemi che la gente affronta quotidianamente, si finisce per costruire un intero edificio di inganni intenzionali.
È per questa via che il divieto di ingresso negli Stati Uniti deciso da Trump diventa «guerra al terrorismo».

Ecco.
Il nodo sta lì.

Chiunque lavori spalla a spalla con coloro che costruiscono un mattoncino dopo l’altro l’intero edificio di inganni e di menzogne o non se ne accorge, e allora è stupido, e di conseguenza dovrebbe essere spinto ad andarsene; o se ne accorge, e allora – se non è in suo potere cambiare le cose – se ne deve andare; o, nel caso in cui resti, deve avere molto chiara qual è la sua responsabilità.

Seb Dance non ha idea di quanto le sue parole mi abbiano aiutato.

Ho solo da aggiungere una cosa: che l’edificio di inganni di Trump non è cominciato con il riduzionismo che può avere circondato i suoi «ordini esecutivi» (strumenti presidenziali della cui esistenza pochi di noi erano a conoscenza).
Tutto è cominciato molto prima.

I processi politici sono lunghi, e i giornalisti – avrebbe detto mia madre, che se ne accorgeva sempre – dovrebbero essere in grado di accorgersi istante per istante del crescere dei fili d’erba.

Se non se ne sono accorti, non sono io che mi sento al centro del mondo, o Seb Dance che non ha fatto il bravo politico.