le parole-muro, le parole-corpo e il silenzio

In treno per Pesaro, finalmente un sedile orientato nella direzione di marcia.
Non mi capita mai: qualunque sedile, sempre in direzione ostinata e contraria.
Vuol dire che qualcosa sta cambiando? Bisognerà che ci faccia qualche bella riflessione.

Per adesso, mi limito a godere della compagnia dei Flook in cuffia e a sentire il sole.
Oggi alle sei, al circolo Arci l’Otto di Pesaro, Jacopo Nacci parlerà con me dell’avvocato G., di Due colonne taglio basso, dei Diari di Emma, e mi ha già minacciato la domanda delle domande, la più difficile possibile: cos’è per te la parola, cosa sono per te le parole.

Ammetto che è un interrogativo pertinente. Ma è tremendo.
Il fatto è che da un po’ di tempo mi sembra che le parole, in aggiunta ai poteri che hanno, abbiano anche il potere di far muro alla pelle.
So bene che usare le parole è una questione di potere; ho presente don Milani; so cos’è il possesso di una lingua.
E so anche che non sempre è il possesso della lingua a fare la differenza, altrimenti non mi spiegherei il motivo per il quale le affabulazioni ideologiche di questa fase politica del mio Paese risultino convincenti – no: soddisfacenti – anziché in-significanti come in realtà in molti casi esse sono.

Ma quel che voglio dire, adesso, è un’altra cosa, che forse ho sempre saputo, ma avendola usata tendevo a giustificarla affettuosamente.
Quel che voglio dire – e mi ci ha fatto riflettere Jacopo – è che le parole possono essere usate come un muro per evitare di entrare in contatto con le persone attraverso la materialità sensoriale.

Dici «parola» e ti viene l’associazione con «cervello».
Hai voglia a dire «in principio era il Verbo»: non si può dimenticare la seconda parte: «il Verbo si è fatto carne».
Se la parola non si fa carne, se non serve a toccare il mondo, le cose e le persone – e non solo le loro intelligenze, i loro «Verbi» – mi viene da dire che essa non ha alcuna sacralità.
Fa impressione anche a me sentirmi esprimere in termini di «sacro».
Ma è vero, mi sa: la parola è sacra solo quando si fa carne, quand’è relazione, quand’è contatto, quando entra nell’universo dei sensi, quando scende dal cervello al cuore e alla pancia, quando te la senti entrare, quando la vedi danzare davanti a te e la senti accarezzarti, quando lenisce, quando sorregge i sentimenti, quando dà corpo alle sensazioni.

Ma c’è un momento in cui la parola deve saper tacere.
C’è il momento del silenzio.
Ha l’aria – absit iniuria verbis, mioddio – di un’affermazione del libro di Qoelet; mi domando cosa diavolo sarà questa mia deriva pseudo-sacrale.
C’è il momento in cui la parola deve ritirarsi, abbandonarci, e lasciare spazio agli occhi e alla pelle. Ai sensi. Alla parte sacra di noi, quella che non può contare sulla forza delle parole, quella indifesa, sola, individua, piccola e vulnerabile.

I Flook, i Solas, il treno, la direzione giusta; le molte parole dette e ascoltate, e scritte, e amate, e equivocate, e sussurrate, e urlate; le lacrime, anche, e quante.
Dev’essere questo, tutto insieme, a rendermi così «nuova» a me stessa.