essere dove si è, pretendersi altrove

 

Per un sacco di tempo, la parola «ipocrita» mi ha lasciato perplessa e interrogativa.
Era usuale, una volta, definire ipocrita chiunque. In genere, ci si accoppiava la denominazione di «borghese».
Un «ipocrita borghese». Però, come suonava bene. L’ho sentito un’infinità di volte.

Mi veniva da pensare che «ipocrita» era una scorciatoia linguistica per non dire niente facendo finta di dire qualcosa. Era una parola di moda. Tu la pronunciavi ed eri subito parte della comunità di quelli à-la-page. Come adesso – che so – parlare di, boh, «territori», «competitività», «azienda Paese».

Ci ho impiegato del tempo, ma adesso mi sembra (grazie, Barbara) di aver capito cos’è l’ipocrisia.
L’ipocrisia è l’indisponibilità a considerare come un unico movimento l’atto dell’ascoltarsi, del sentirsi, e dell’accettare quel che si sente.
È la difesa di se stessi da sé, e non dagli altri.
È il ritiro di se stessi in un recinto nel quale aderire all’idea di sé che non si vuole mettere a rischio.

È dare agli altri la responsabilità di capire e sentire al posto nostro, guardandoli da distanza di sicurezza, con un ditino puntato.

L’ipocrisia è smentire di essere dove si è, e pretendersi altrove. È dire con Bill Clinton «I did not have sexual relations with that woman Miss Lewinsky» basandosi sull’argomento che in fondo tutto quanto si riduceva a un sigaro.

È usare il piano simbolico-metaforico per esserci e il piano di realtà per sottrarsi.

Forse tutto questo c’entra con quel che sta succedendo in questo Paese.