oscillare fra casa e l’altrove

Free Wi-Fi.
St. Stephen’s Green shopping centre.
Comoda, al caldo.

Oggi ho camminato tantissimo; credo di aver fatto dei chilometri. Guarderò la cartina, stasera o chissà quando, e farò un calcoletto approssimativo.
Sono andata verso sud, là dove fra me e Dublino tutto è cominciato.

Giù verso Grand Canal, la parte georgiana. Giù verso lo Schoolhouse hotel, il primo hotel dove sia mai stata, qui.
Mi scusi per il mio inglese, dissi alla receptionist.
Non c’è problema, mi rispose. Il mio italiano è infinitamente peggio.

Avevo, prima, uno stato d’animo molto confuso, e triste.
Dovevo acchiapparmi a qualcosa.
Avevo i piedi.
Avevo la macchina fotografica. Il mio computer portatile.
E avevo i miei ricordi.

Vado là, mi sono detta.
Era il 2003, la prima volta che son venuta qui.
C’era il congresso della Wan, la World Association of Newspaper.
Di italiani c’eravamo Azzurra Caltagirone – bellissima, occhi meravigliosi – e io.
Io per curiosità; nessuno mi ci mandava, e a nessuno – anche se lavoravo in un giornale, come ora – interessava sapere cosa eventualmente ci avrei imparato.
Lei in quanto editrice.

Piccole cose che danno la dimensione del dinamismo italiano, verrebbe da dire.
Ma dire una cosa simile è come sparare sulla croce rossa.

In ogni caso.
Da Butlers ho assaggiato un muffin: raspberry and vanilla.
Bah.
Né dolce né amaro.
Solo pieno di burro il cui gusto nemmeno si sentiva.
Penso di dovermi rassegnare all’evidenza.
Numero uno: non mi piacciono i muffin. Numero due: non vado pazza per i dolci.
Ammetto che c’è di peggio a cui doversi rassegnare.

La mia passeggiata è stata meravigliosa.
Ho visto strade e colori che avevo dimenticato.
È una zona della città dove tutto è silenzioso e pieno di luce.
C’è il canale, ci sono le case di mattoni; quelli rossi e quelli marroni.
Ci sono le porte ad arco che sono su tutti quei poster intitolati «porte di Dublino».

Ci abitano i ricchi, là.
E i ricchi sono, temo, sempre di meno.
Decine di decine le case in vendita.
Decine gli uffici in affitto.
Un sacco di finestre chiuse da assi incrociate.

Mi domando cosa sta succedendo veramente, qui.
L’altra sera in tv c’era un economista che si vantava di aver previsto questa crisi già tre anni fa, e lamentava che nessuno gli aveva dato ascolto.
Accidenti: ma tutti sapevamo già, tre anni fa, che la crisi c’era e mordeva, e che avrebbe morso ancora di più.
Come mai qui nessuno ci credeva?
Non capisco.

Qui la faccenda dei mutui e delle case è scoppiata come in America.
La gente ha dovuto vendere perché non poteva più pagare mutui così esosi.
E l’inverno freddo ha fatto il resto.
Pare impossibile: ma tanti e tanti giorni di neve hanno fatto impennare i costi per il riscaldamento.
Qua e là – forse, mi spiegavano, parzialmente finanziati dallo Stato, anche se a me pare strano – ci sono dei lavori di coibentazione delle case.
Dodici o quindicimila euro per unifamiliare, mi dicevano.
Un cifrone.
D’altra parte, se il prossimo inverno ci sarà lo stesso freddo di quest’anno, le spese di riscaldamento potrebbero diventare proibitive.

Quel che non capisco è come mai i negozi siano pieni.
Questo mi fa venire in mente quel che diceva Berlusconi qualche anno fa; e quel che c’era scritto, anche, su un numero di fine d’anno del detestabilissimo Corriere della Sera Style Magazine, o forse era un magazine del Giornale: altro che crisi, la gente compra. E se compra vuol dire che la crisi non c’è. Avete visto quanta gente compra il caviale?, domandava un genio di quel magazine.

Dietro le mie spalle c’è un gruppo di teenagers coi capelli di tutti i colori.
È qui che viene fuori la mia natura provinciale.
Mi stanno accerchiando?, mi domando.
Naturalmente no, e lo so anch’io.
Ma la solitudine e quel che di provincialismo a cui sono felicemente condannata mi giocano degli scherzi.

Pensavo che sarei rimasta qui fino al 26, ma domani – anzi: stanotte – riparto.
Ho bisogno di casa mia.
Dei miei odori.
Una perfetta crisi di nostalgia.
Nella mia vita sono andata periodicamente soggetta a queste crisi.
Ricordo una volta una vacanza a Capri con mia zia.
A metà decisi di prendere il traghetto e l’aereo e tornare a casa.
Mia madre pensava che tornassi per il mio fidanzato dell’epoca.
Macché.
Tornavo per – esagero, ma insomma: ci capiamo – tornavo per la «madrepatria». Dunque, un po’ anche per lei (e per mio fratello).

That’s the way it is.
That’s the way I am.
Sono fatta così.
Tutta fuochi e effervescenza, e tutta malinconie.

Curiosamente, tutto insieme.

D’altronde, l’altrove è un posto a cui tendere e da cui poter tornare indietro.
Se fosse il luogo dove rimanere non si chiamerebbe altrove, ma «casa».
E la casa, in realtà, sta stretta pure lei.
In se stessa, in qualità di nido; e, nel caso di Verona e dell’Italia, anche per quel che dentro di me rappresenta.

Okay.
Scarico le foto.
Vediamo come sono.
Poi mi alzo e vado a farmi un tè dalla Queen of Tarts.
Non è a sud, ma è comunque un posto mio.

E io sono alla ricerca di un posto mio.
Anche mio.