post-it da listowel

Alle quattro di oggi pomeriggio – che poi sono le cinque ora italiana, e questo non significa assolutamente niente – il chairman della Listowel Writers’ Week Sean Lyons, doveva ancora pranzare; il che, per un posto dove si cena alle sei di sera, rende un’idea della gran messe di impegni, imprevisti e commissioni un festival come questo comporta.

E comunque: siccome dovevamo parlare, mi ha invitato a seguirlo nel posto dove andava a mangiare.
Ogni due passi qualcuno gli chiedeva «come va, Sean?», e lui immancabilmente rispondeva «not too bad», «non troppo male»…

Già seduti al tavolo, facendo lo slalom fra i saluti di Tizio e i saluti di Caio, non so come siamo finiti a chiacchierare dei sogni, di quanto propellente riescono a dare alla vita, di quanto sia essenziale non perderli di vista, amarli, coltivarli. È uno dei miei argomenti preferiti, di questi tempi.

«Conosci Frank McCourt?», mi chiede.
«Sì, altroché», rispondo. «Le ceneri di Angela sono un libro fantastico».
«Bene», dice. «Un giorno mi ha detto questa cosa che per me è stata una rivelazione».
La frase devo scriverla in inglese, perché non so trovare le parole italiane adatte.

«The world is full of nothingness. When you create something, you push» (gesto col braccio) «its somethingness into nothingness. This is amazing».

Il mondo, gli disse McCourt, è pieno di «nientezza». Quando crei qualcosa, spingi la «qualcosezza» nella «nientezza», e questo è sbalorditivo.

Io non potrei giurarlo davanti a testimoni, ma ho visto che quell’uomo di mezz’età, padre di famiglia gioviale, ilare, chiacchierone, fisicamente terragno e materiale, aveva gli occhi lucidi.

Ecco. Questo è quel che di questo posto non smette di sorprendermi: la facilità con cui le persone che si occupano di parole e di pagine riempiono di senso le loro parole e le loro pagine anche quando non stanno – a rigore – occupandosi di scrittura.

Ieri sera all’inaugurazione del festival parlava il presidente della Repubblica, eletto relativamente da poco. Si chiama Michael D. Higgins, ed è stato presentato come «il poeta presidente».
Sono sicura che noi l’avremmo definito «il presidente poeta».

Ha detto questo: «Sono stufo di sentire gente che dice “preferisci avere un ospedale nuovo o un investimento in cultura?”. Non possiamo essere costretti a scegliere fra la salute e la cultura, nemmeno in tempi di crisi, perché quel che dobbiamo fare, invece, è affidarci alla creatività. Solo la creatività ci mette in condizione di non seguire l’esempio di nessuno e di trovare soluzioni alternative ai problemi».

Sono un tipo romantico e impressionabile, benché ben protetto da un guscio cheratinico a scomparsa; eppure, quelle parole mi hanno emozionato.
Ho provato a chiudere gli occhi e a immaginare che stesse parlando Napolitano.
Non ci sono riuscita.

Alle 16.30, Colm Toibìn intervistava il delizioso e per me finora sconosciuto londinese John Lanchester, autore di un tomo appena uscito intitolato «Capital».
Trovatevelo da voi su Google, se volete.
A un certo punto ha raccontato la storia di sua madre, irlandese che – ex suora – ha incontrato l’uomo della sua vita a Londra e temendo che i suoi quarant’anni lo inducessero a lasciarla stare, ha mentito non sulla sua età – il che sarebbe stato ancora semplice – ma sulla sua identità, assumendo in tutti i documenti ufficiali l’identità della sorella minore, rimasta in Irlanda.

La cosa incredibile è che il figlio – l’unico – ha conosciuto la verità, lui come tutti gli altri, il giorno del funerale della madre.
Non oso immaginare che cosa abbia significato per la sua identità, per la sua vita, per il suo senso di sé.

Avevo appena comprato una copia del suo monumentale «Capital», in vendita nel banchetto in fondo alla sala. Quando è finita l’intervista, me lo sono fatto autografare e gli ho chiesto se si tratteneva ancora un pochino.
Mi ha risposto di sì.
Ho fatto una corsa in libreria, dalla signora che l’anno scorso mi ha detto che ero italiana ma onesta, e ho trovato l’ultima copia del suo «Family Romance» che solo ieri avevo deciso di non comperare, perché i chili della mia valigia aumentano a dismisura ogni ora che passa.

Di corsa, son tornata alla sala dove s’era tenuta l’intervista, e John era ancora là che firmava l’ultima copia di «Capital».
«Ce l’ho fatta!», gli ho detto sventolando il suo libro. «Era l’ultima copia!».
Me l’ha autografata.
Ci ha scritto: «A Federica, con la speranza che questo libro valga tutta la fatica fisica che ha fatto».

Okay. Notizia. I fotoreporter, in Irlanda, non sono autorizzati all’alterazione digitale delle immagini. L’hanno detto non più di dieci minuti fa, all’inaugurazione della mostra del premio Aib (Anglo-Irish Bank) Photojournalism Awards.
Sono molto impressionata.

Infine, altre due cose.
Di Carlo Gebler, il cui workshop ho seguito stamattina e seguirò per altri due giorni, dirò domani.
Non sono riuscita a farmi un’opinione chiara; è gentile, ma non ho ancora capito se è rigido.

L’altra cosa è che fra meno di un’ora ascolterò Des Bishop!!!
Non vedo l’ora.
E in realtà, adesso che sono entrata nella sala, ce l’ho esattamente davanti agli occhi.
Sembra un ragazzino.
Sto leggendo il suo libro; ha cose molto belle, curve e tornanti, ma anche cose piatte, scialbe, prevedibili.
Vediamo se a sentirlo parlare dal vero mi faccio un’opinione.