tawaf: la pioggia, una rosa gialla, le mucche e la punta

La prima cosa che faccio è quel che mi hanno detto di non fare mai: stappare il flaconcino e annusare intorno al buchino dello spray. Non mi importa se l’odore è alterato. «È un odore ossidato», mi hanno detto mille e mille volte: «quello che senti intorno al tappo non corrisponde all’autenticità dell’odore del profumo».

Ma il profumo non è mai autentico in un modo solo, una volta per tutte. Continua a cambiare, e ognuna delle sue variazioni è uguale espressione della sua autenticità. Non è vero che il profumo che ascolti sulla mouillette non è il «vero» profumo. È sempre lui, solo che è diverso; come una persona, che cambia a seconda della situazione in cui si trova, dell’ambiente che ha intorno, del tipo di interazione che riesce a creare; ma rimane sempre e comunque quel che è, anche se di sé tira fuori aromi e colori diversi, spesso sfumati l’uno nell’altro in transizioni impercettibili.

Così, io il tappo lo annuso; e annuso l’atomiser dello spray. Lascio perfino il flacone per un po’ senza tappo. Voglio inseguire le trasformazioni dell’odore, ma tutto quello che veramente mi interessa è intuire in quale famiglia di odori mi trovo.

Quale famiglia per me, intendo. Non quale «famiglia olfattiva». Voglio capire quali pezzi di mondo e di passato tornano in superficie dal basso, da sotto, da dentro.

E così, ora che riguardo il flaconcino di Tawaf dopo che ho indossato la fragranza, l’ho mescolata ad altri profumi, l’ho spruzzata in luoghi diversi del corpo, ne ho impregnato delle stoffe e l’ho atomizzato nell’aria, a me viene in mente quella volta che sono andata a Siviglia.

Comincia così la mia recensione al profumo Tawaf (creato da Abdes Salaam Attar), di cui si dice qui.
Grazie a Giovanni Sammarco e ad Abdes Salaam Attar per avermi permesso questa bellissima esperienza.

Il seguito della recensione è qui.