lesson nr. 1

Alla mia età – dicevo un post fa – è venuto il momento in cui posso consentirmi il lusso di non avere a che fare con chi non argomenta quel che pensa, e di mandare al diavolo coloro che non si preoccupano di capire quel che dico.
Lo ribadisco.
Fa bene alla salute.
Evita i finti dibattiti inconcludenti; toglie uno spettatore a coloro che vogliono far esibizione di virilità intellettuale; afferma il mio diritto a chiudermi dentro a chiave; mi consente di ragionare con più serenità e margine di tempo sulla mia competenza su un argomento.

Il «dibattito» che s’è aperto su una bacheca Facebook – non mia – a proposito del mio post su Isabella Viola ha cominciato a infastidirmi quando c’è stato qualcuno che – facendo un altro lavoro – voleva insegnare a me cosa fosse il giornalismo.

Dice: sei antipatica, però.
Certe volte sì. Non ho molte attenuanti.
Però di sicuro non do lezioni a nessuno nei campi in cui non ho una specifica, radicata e solida competenza.
E dice anche: ma te la tiri!
Certe volte sì, e non ho attenuanti neanche qua: ho impiegato molti anni a capire che a fare alcune cose sono brava; non ha senso che faccia professione di falsa modestia.

Sicché, eccomi alla lezione di giornalismo numero uno.

Con una premessa importante, però: può essere benissimo che coloro che hanno scritto di Isabella Viola abbiano sentito molti di testimoni che hanno raccontato loro molti dettagli.
Può essere benissimo che il frutto di quelle conversazioni – delle quali i pezzi che ho visto sembrano tuttavia non recar traccia (però può essere, semplicemente, che sia io ad essere incapace di trovarle) – siano le cose che hanno scritto: che lei rassettava casa la mattina prima di uscire per andare al lavoro, che non sapeva niente di spread, che non sapeva niente di Europa, che preparava la colazione ai figli prima di uscire di casa per andare a lavorare, che il marito era un muratore bravo…
Il ragionamento che si trova qui sotto va inteso in termini generali; e se uso l’esempio di Isabella Viola è solo perché è a proposito della sua morte che s’è sviluppato il «dibattito» a cui mi riferisco.

Domande: che male c’è a «lasciar andare la penna», a infiorettare una storia «bella» come quella di Isabella Viola, morta in una stazione della metropolitana a 34 anni una mattina prestissimo mentre, madre di quattro figli e moglie di un muratore senza lavoro, andava al lavoro?
Affermazione: nel demitizzare (la scrittura) – questa mi è piaciuta tantissimo – si compie un’opera di sottrazione, e questa è un’operazione nichilista e pedante.
Lezione ricevuta: il giornalismo è informazione ma anche comunicazione, piccola cara; dunque, qual è il problema se si rende un po’ più emotivamente carico il contesto?

Partenza.

Sul punto morale, ho già scritto nel post precedente a questo.
Mi resta solo da aggiungere che se la «bella storia» (io sarò pure scema, ma il fatto che la storia di Isabella Viola fosse «bella» fatico a concepirlo; posso capire che sia ricca di implicazioni, interessante, profondamente tragica. Ma «bella» direi di no, e qui il moralismo non c’entra) fosse una storia qualunque, magari tragica, di uno di noi, probabilmente l’opinione di quell’uno sull’opportunità di caricare l’aspetto emotivo di quella storia potrebbe cambiare.

Bottom (moral) line: quando si scrive di qualcuno che ci ha affidato la sua vita o la sua morte senza volerlo perché è diventato un fatto di cronaca, noi giornalisti abbiamo il dovere di inventare il meno possibile (bello sarebbe non inventare affatto), per una questione di rispetto elementare nei confronti della complessità di una vita, di una morte, di un tessuto di relazioni la cui trama col nostro infiorettamento narrativo andiamo a sollecitare.

Sul punto tecnico, invece, c’è da dire ancora qualcos’altro.
Mettiamo che ci venga data la notizia che una donna apparentemente giovane è morta non si sa perché in una stazione della metropolitana.

Cosa fa un giornalista?
Se la notizia è arrivata a breve distanza di tempo dal momento in cui il corpo è stato riconosciuto come un corpo senza vita, prende le gambe e va alla stazione della metropolitana.
Guarda.
Osserva.
Chiede alla polizia o ai carabinieri, o a chiunque sia sul posto per ragioni di lavoro, se l’identità della donna è nota.
Si informa se i familiari sono sttai informati della sua morte.
Cerca di apprendere l’identità dei familiari.
Cerca di sapere l’indirizzo di casa della persona morta.

Cerca persone che possono aver visto direttamente la dinamica dei fatti, se ce ne sono. Le fa parlare, chiede loro cos’hanno visto, sempreché abbiano visto qualcosa; non chiede cos’hanno provato. Casomai, cos’hanno fatto.
Cerca di capire se c’è una telecamera a circuito chiuso le cui immagini siano teoricamente in grado di restituire la sequenza dei fatti.
Verifica se c’è una possibilità di vedere quelle immagini, per sua pura conoscenza, e non perché sia necessario – deciderà poi se sarà il caso di farlo o no – descriverle. E se deciderà di descriverle, lo farà in modo tale che, leggendo le sue parole l’indomani o fra dieci anni, i figli di quella donna non si sentano straziati.
Si informa su chi sia il pubblico ministero di turno, o a quale magistrato andrà il fascicolo su questa morte.
Cerca di capire chi sia stata la prima persona a rendersi conto di ciò che era accaduto, e tenta di parlare con lei, se è possibile.

Raccolte le informazioni sul fatto, passa a cercare le informazioni sul contesto.
Riprende le gambe e va a cercare i parenti.
Il marito, per esempio.
Magari è alla stazione della metropolitana anche lui. O magari è all’obitorio.
Va. Lo cerca. Gli chiede se la donna era malata, da quanto tempo erano sposati, quanti figli hanno, che lavoro fa lui. Appreso che è disoccupato, gli chiede da quanto e perché. Gli chiede notizie sull’ultima ditta in cui ha lavorato.
Le notizie possono essere dappertutto, e a scovarle devono essere quelli che vengono pagati per farlo.

Si fa raccontare quanti più fatti può. Non gli chiede cosa prova. Gli chiede chi l’ha avvertito, come ha appreso della notizia, se ha già avvisato i figli.
Cerca i genitori della donna, gli amici, i colleghi, il datore di lavoro: li ascolta, cerca di farli parlare.

Se vuole costruirci un «caso» che abbia – ahimé – valore di simbolo, allora cerca tutto quello che è necessario a costruire la notizia-caso: ricostruisce la carriera di lei, ricostruisce la carriera del marito, cerca di capire se le aziende in cui entrambi hanno lavorato erano in regola oppure no; se l’ultima impresa nella quale aveva lavorato il marito della donna morta l’aveva assunto in modo regolare o no; se l’aveva licenziato in modo regolare oppure no. Verifica tutto questo.

Si documenta su quante aziende abbiano chiuso nell’ultimo anno (semestre, mese, quel che si vuole) nella zona in cui sono avvenuti i fatti; cerca di capire se sono di più o di meno rispetto al periodo precedente.
Organizza un box nel quale riassume la disciplina sui licenziamenti introdotta dalla cosiddetta riforma Fornero. Spiega cos’è cambiato.
Chiede a un cardiologo se e in quale modo la concitazione di una vita complicata può danneggiare la qualità e l’efficienza dell’attività cardiaca in una persona giovane, indipendentemente dalla preesistenza di una malattia.

Cerca di capire quando, a termini di legge, è necessario che si attivino i servizi sociali, se il caso della famiglia di Isabella era uno di quei casi in cui i servizi sociali si sarebbero dovuti mobilitare oppure no. Sente un assistente sociale, si informa sulla normativa.

Se si vuole costruire una notizia, ci sono delle regole.
Se si vuole costruire una notizia, si cercano notizie a supporto.
Non ci si mette a inventare.

Certamente, al giornalista potrà capitare che una qualunque di queste persone, o addirittura tutte, lo mandi a quel paese (d’accordo: lo mandi affanculo, e in malo modo).
Fare il giornalista comporta la capacità di incassare un certo numero di vaffanculo, e anche la capacità di ovviare a quei vaffanculo cercando le notizie da altre parti.
E se proprio non c’è altro modo di ricostruire la notizia nel dettaglio, vorrà dire che il pezzo verrà un po’ più corto. Pazienza.

Ora, uno potrebbe dire: ma che bisogno c’è di sapere tutte queste cose?
Rompere le scatole alle persone che hanno appena vissuto una tragedia come questa e magari devono ancora rendersi conto fino in fondo di quello che è successo non è un’azione violenta e moralmente riprovevole?

La mia risposta è: forse.
Per due motivi.
In primo luogo, perché nel chiedere c’è modo e modo, e tutti siamo esseri umani; quel che è accaduto a una persona riguarda tutti, e lo spirito con cui un essere umano giornalista si avvicina a un altro essere umano fa la differenza, anche se non esclude affatto che il risultato finale (o perfino iniziale) sia ugualmente il vaffanculo.

In secondo luogo, perché rivolgendosi direttamente, e mettendo la propria faccia, alle persone che stanno vivendo un’esperienza così intensamente dolorosa, si consente loro di entrare in una relazione umana dalle regole chiare: io che mi chiamo Ics Ipsilon e lavoro per il tal giornale o la tal tv o la tal radio ti faccio alcune domande; tu hai la libertà di rispondere o mandarmi a quel paese. E se mi rispondi, quando poi leggerai il pezzo saprai anche che faccia aveva chi l’ha scritto.

Il lavoro del giornalista è fatto anche di queste seccature.
Dichiarare chi si è, sempre, e per chi si lavora.
Dichiarare perché si domanda.
Domandare.
Farsi mandare a quel paese, eventualmente.
E scrivere tutto quello che si sa per certo (non tutto ciò che si immagina) perché lo si è verificato, a meno che per l’omissione di qualcosa non ci siano ragioni specialissime, che di sicuro non sono né la comodità né la ricerca di un privilegio né il bisogno di non irritare un potere o di compiacerne un altro.

Se tu non cerchi le fonti, non parli con loro, non ti assumi il rischio che ti trattino male, e decidi di metterti a inventare (voglio che sia chiaro che non sto dicendo che questo è il caso del giornalista del Fatto o di qualunque altro collega si sia occupato di questa vicenda; ripeto che faccio solo un’ipotesi), dimostri due cose:
– che non sai fare il tuo lavoro (o che qualcuno non ti ha lasciato fare il tuo lavoro, anche; o che qualcuno ti ha lasciato credere che il lavoro consistesse nell’invenzione di ciò che non trovi/non sai trovare, e nella soppressione di ciò che non ti fa comodo).
Diversamente, avresti avuto fonti di prima mano che ti avrebbero consentito di scrivere «cose» più che «belle storie», e non avresti avuto bisogno di scomodare l’invenzione retorica emozionante, il fuoco d’artificio sentimentale;

– che la tua vocazione è, eventualmente, quella del narratore, ma poiché hai un po’ di confusione in testa fra il ruolo del giornalista e quello dell’imbellettatore di storie, decidi che la tua specialissima opera di narrativa la costruisci dalle pagine di un giornale, inventando scenari e attribuendo sentimenti a persone che magari nemmeno possono più contraddirti, o che, anche potendolo fare, decidono che la loro vita è più importante che contraddire te.

Qual è la cosa sbagliata in questo?
Che le persone non sono i tuoi personaggi.
Dei tuoi personaggi puoi fare quel che vuoi. Delle persone vere no.

È chiaro che ciò di cui parlo non è (il mito del)l’obiettività: so bene che nessuna esperienza può prescindere dal punto di vista.
E non sto nemmeno pensando che i giornali possano diventare asettici bollettini medici.

Sto dicendo due cose, entrambe minuscole.

La prima è che quando si tratta della vita degli altri sarebbe buona norma che noi giornalisti ci attenessimo a un generale principio di continenza, di temperanza, di cautela e di delicatezza, evitando di proiettare sugli altri pensieri e sentimenti nostri, anche perché fare questo significa che non sappiamo tecnicamente fare il nostro lavoro e cerchiamo la scorciatoia emotiva.

La seconda è che esiste una responsabilità non solo per chi scrive, ma anche per chi legge.
Chi legge ha la responsabilità di cercare di capire quel che legge.
Questo significa che se un pezzo è giocato sui toni dell’epica verista (una contraddizione in termini, me ne rendo conto…), chi legge deve capire che quell’articolo mira a ottenere una reazione emotiva di un certo segno.

Se al lettore va bene avere la reazione emotiva, nella relazione fra chi scrive e chi legge è tutto a posto (non altrettanto, io credo, nella relazione fra chi scrive e coloro dei quali si scrive, ma questa è un’altra cosa).

L’importante è solo averne coscienza. Sapere che quel che si legge ha un rivestimento emotivo che contiene un suggerimento sentimentale su quale sia la parte giusta con cui stare è tutto quel che serve alla consapevolezza del lettore.

Non direi che questo ha qualcosa a che vedere col nichilismo né con la sottrazione di senso. Anzi: al contrario. Mi sembra che contribuisca alla creazione di una pluralità di sensi, e si sottragga alla dittatura (per così dire) di un senso «necessario» e unico.

Nel caso di Isabella Viola, il testo implicito è che noi stiamo, compatti, dalla parte di chi non sa come arrivare alla fine del mese; di chi ha una vita difficile, di chi paga il prezzo più alto della crisi. Che stiamo dalla parte dei «semplici». Noi, però, non sappiamo se Isabella era laureata in ingegneria genetica, per esempio.
Diamo per scontato che sia una donna che si occupava solo di cose minime, per quanto cruciali: fare le pulizie, andare al lavoro, mantenere la famiglia.
Ma non sappiamo niente (probabilmente: magari, invece, chi ha scritto i pezzi lo sapeva bene) delle sue aspirazioni, delle sue letture, dei suoi sogni, dei suoi progetti.
E pur non sapendo (probabilmente) niente, invece di alzare le mani decidiamo che quel che non sappiamo possiamo interpolarlo.

Interpolandolo, diamo materia a un personaggio che è funzionale alla creazione di qualche sentimento che vorremmo diffondere fra i lettori: la pietà, l’indignazione.
Ancora una volta, buoni di qua e cattivi di là.

E allora, ho qualche domanda: se il marito di Isabella Viola fosse stato un baby pensionato delle Poste degli anni d’oro; se Isabella fosse stata un evasore fiscale; se fosse stata una falsa invalida, sarebbe stata buona perché è morta in quel modo, o cattiva perché «privilegiata» senza merito?
Da che parte saremmo stati invitati a metterci?

Inoltre: se Isabella avesse marciato urlando insieme agli studenti, se avesse dato fuoco a un cassonetto, e proprio per le motivazioni per le quali tanto solidali ci sentiamo con lei, e cioè perché doveva mantenere la famiglia e il marito era disoccupato, e non ne poteva più, da che parte saremmo stati invitati a metterci?

Quando mi si dice che l’emozione non può scomparire dalla comunicazione mi si dice una cosa sciocca e a suo modo offensiva.
Offensiva perché tenta di farmi dire ciò che non ho detto (se avessi voluto dirlo sarei stata proprio scema).
Sciocca perché il problema non è l’emozione, ma lo scopo a cui quell’emozione punta.

Se dico a mio figlio «mangia, perché in Africa i bambini muoiono di fame», ciò a cui punto, consapevolmente o no, è creare in mio figlio una sorta di senso di colpa che lo spinga all’azione del mangiare.
Ma in nessun modo creo le condizioni perché io o mio figlio veniamo spinti all’azione di ridurre il numero dei bambini che muoiono di fame.

Dice: ma voi due da soli non potete farlo.
Certo. Vero.
Ma un conto è che io informi mio figlio, anche con ricchezza emotiva, che ci sono Paesi del mondo in cui i bambini muoiono di fame, scatenando in lui la curiosità, il bisogno di capire perché, il desiderio di mettere in gioco se stesso per provare a risolvere un problema.
Un altro conto è che io usi la vita (e la morte) di qualcun altro solo perché non sono capace di fare la madre in un altro modo; magari meno ricattatorio e – chissà – pure più insopportabilmente autoritario.

D’altra parte, non sta scritto da nessuna parte che mio figlio non si possa arrabbiare con me; né che io non possa fare i conti con la sua rabbia; né che fare i conti con la rabbia non significhi mettersi in relazione.

Col ricatto dei bambini che muoiono di fame non entra in gioco nessuna relazione: viene presentato un imperativo morale e viene sollecitato un senso di colpa. Punto.

Il pezzo di Dreyfus, al di là del fatto che era profondamente diffamatorio nei confronti del giudice che autorizzò l’interruzione di gravidanza della tredicenne (parlo del caso Sallusti), fa questo: romanza, inventa, imbelletta, «lascia andare la penna», immagina la sala operatoria nella quale si svolge l’intervento di interruzione di gravidanza, l’urlo della ragazzina, attribuisce ai genitori della ragazzina un’etica da bassifondi della moralità.

Noi ci arrabbiamo per questo pezzo; ma non per i pezzi in cui Isabella Viola è «la regina», anche se nascono dallo stesso processo di «imbellettamento» e di immaginazione.
Solo che invece di denigrarla (anche se, secondo me, sostenere che lei non sapesse niente di spread non è un bel modo per renderle onore; anche perché non so quanti siano quelli di noi che sanno di spread), quei pezzi sembrano puntare a esaltarne la genuinità, la scarsa sofisticatezza, la povertà di mezzi materiali e intellettuali.

Un nuovo «buon selvaggio», insomma.
Guardato dall’alto della nostra sofisticatezza intellettuale.