una carezza per me

Fino a ottobre c’è stato Saturno, e non potevo pretendere chissà che. Ma quest’anno è stato tremendo, difficile, angosciante. Prima e dopo ottobre.
La musica di adesso è questa.

Sono stanca, come se avessi speso un’enormità di tempo e di energie spingendo con le spalle verso l’esterno le pareti di cemento, un po’ per evitare che la stanza diventasse sempre più piccola, un po’ per tentare io stessa di allargarla; e ancora non so cos’è successo: se ho semplicemente evitato che le pareti, facendosi sempre più vicine al mio corpo, mi impedissero il respiro e mi frantumassero le ossa, o se ho davvero allargato la stanza, ne ho individuato la porta e sono veramente uscita sotto il cielo.

Credo di essere veramente sotto il cielo, ma piove.
Ho il cappello a prova d’acqua preso a Galway, l’impermeabile e gli stivali antipioggia comprati a Dublino, e questo è già un bel qualcosa.
Ma continuo ad aver bisogno del sole, e del cielo azzurro.

Il mondo mi si è rigirato sotto i piedi, la terra s’è fatta molla. Ho dubitato di tutto, ho cercato certezze che appartenessero proprio a me.
Ho riguardato la strada che avevo percorso, mi sono ricordata di pezzi della mia vita che avevo dimenticato.
Ho «storicizzato» la mia vita, ne ho preso atto.
Ho capito che io sono io, e sono sempre quella.
Mi sono diventata più cara, e più simpatica. Mi sono fatta più tenerezza, mi sono amata di più, piaciuta di più. Mi sono data il diritto di essere quel che sono, di prendermi come vengo, e di cacciare via, anche in malo modo, tutto quello che non c’entra.

Ho preso decisioni importanti, radicali; e sono ancora qui a elaborare il lutto, a cercare di capire per bene se la direzione in cui mi sto muovendo, con più lentezza di quanto avrei immaginato, sia una direzione che mi corrisponde.
Sono ancora qui a fare i conti con le ingiustizie che so di aver ho vissuto. A constatare che molto di ciò in cui ho creduto non serve a niente.
A domandarmi come sia stato possibile che io abbia incrociato nella mia vita una tale incredibile quantità di coglioni cattivi, di coglioni inetti, di merde, di vermi.
Io che non avevo mai creduto nell’esistenza della cattiveria, e ben mi sta.

Dice un proverbio irlandese che dio ti manda gli amici per farsi perdonare della famiglia che ti ha dato.
Ecco, non so.
Quest’anno è proseguita – a scopo autoprotettivo e «autodichiarativo» – quella faticosa opera di potatura degli amici che è cominciata qualche anno fa.
Ci sono persone che pensi ti vogliano bene, e invece ti accorgi che no; non come vuoi tu, perlomeno; e come vuoi tu è poi l’unico modo che conta, quando si tratta di persone che ti sei scelto.
Quando le persone te le scegli non può bastarti che ti vogliano bene a modo loro: devono volerti bene a modo tuo, semplicemente perché ne hai il diritto e non c’è altro da dire.
A volte con persone che hai portato nel cuore hai condiviso cose serie e profonde; ma neanche questo basta. Non basta mai. Perché loro scompaiono. La vita è così, penso.
Alcuni scompaiono dopo averti predato pezzettini di vita. Ma siccome tu hai voluto bene a questi imprevedibili predatori, puoi solo augurar loro ogni bene, perché la tua strada è tua, e non c’è nessuno che possa veramente portarti via niente, e un sentimento non si rinnega mai.

Poi ci sono quelli che ti tradiscono. Che se devono scegliere fra te e la loro convenienza contingente, scelgono la convenienza contingente, e non cercano nemmeno di farti capire perché l’hanno fatto; non cercano nemmeno di dirti che avevano paura.
Qui è stato quasi più difficile, per me.
Pensavo, in qualche caso, di avere a che fare con persone, e invece ho scoperto che sono piccoli scarafaggi. Forse lo sapevo già ma non volevo dirmelo.

Ma poi ci sono persone che non pensavi amiche e invece scopri che sono accanto a te anche se non te n’eri mai accorto veramente.
Questo è un dono grande, perché spesso sono persone con cui non hai un contatto fisico quotidiano, e la loro inattesa gentilezza ti dà calore.
Un altro dono grandissimo sono gli amici nuovi.
E poi ci sono gli amici di sempre, quelli che cascasse il mondo sono sempre lì, a parlare, ad ascoltare, ad abbracciarti, a incoraggiarti, a gioire con te.

E poi c’è un uomo. Lui, sempre lui, ancora lui. Qui da più di vent’anni. Più di vent’anni a non perdersi di vista, a continuare a «sentirsi», ad esserci, a dire, a capire nel silenzio, a ritrovarsi, a lasciarsi scappar via per il piacere di ritornare con cose nuove da raccontarsi o da trasmettersi per via di pelle.
E un altro (piccolo) uomo, che vola alto, e sempre trova strade e parole per raggiungere il cuore.

Il momento in cui il sogno si trasforma in progetto è un grande momento.
Ma è l’istante in cui t’accorgi che hai bisogno di un altro sogno da inseguire.
Quando ci si libera di un’armatura, all’inizio ci si muove meglio, e viene voglia di saltare e correre.
Poi t’accorgi che la corazza che ti difendeva, quella di cui non hai più bisogno, deve andare sostituita con qualcosa di nuovo: non so, un cappottino, una giacchetta…
Solo che te li devi fabbricare tu, e a volte la ricerca della stoffa richiede tempo.

Il 2012 è stato l’anno più difficile dal 1984, o forse dal 1989: mi ha rubato la fede nella magia della vita.
Forse vuol dire che sono diventata adulta. Forse vuol dire che ho chiuso i pori della pelle.
Li riaprirò.

Penso di dovere una carezza a me stessa. Sposterò i capelli sottili dietro le piccole orecchie della bambina che sono e mi sussurrerò paroline dolci, come faceva mia madre.
Solo che a un certo punto, oggi pomeriggio, mi metterò qualcosa di rosso e tornerò una donna.