«femminista» è un’offesa


Quando ho letto che Berlusconi aveva definito «comuniste e femministe» i tre giudici donna che hanno formalizzato la sua separazione da Miriam Bartolini, d’istinto ho pensato che questo vecchio deve smetterla di essere così volgare e insostenibile.

Poi la questione m’è uscita di mente – anche per autodifesa – fino a quando non ho letto della reazione del presidente della Corte d’appello Giovanni Canzio e della presidente del Tribunale di Milano Livia Pomodoro, i quali

«intendono respingere con fermezza ogni insinuazione sulla non terzietà delle giudici del Tribunale, componenti del Collegio giudicante nella causa Bartolini-Berlusconi, essendo a tutti nota la diligenza e la capacità professionale delle stesse, quotidianamente impegnate nella fatica della giurisdizione nella delicata materia del diritto di famiglia».

Ben fatto, mi sono detta.
Ma subito dopo una pulce mi è entrata nell’orecchio.

Terzietà.
Diligenza.
Capacità professionale.

Uhm.
Capisco la necessità di difendere la presidente della nona sezione civile Gloria Servetti e le giudici Nadia Dell’Arciprete e Anna Cattaneo da un giudizio evidentemente espresso con l’intenzione di offendere.
Però mi domando se una donna che sia femminista e comunista sia per ciò stesso inadatta alla terzietà, negligente e professionalmente incapace.

È chiaro che Berlusconi usa queste categorie per far velocemente colpo sui più squallidi e intellettualmente miserabili fra gli elettori: quelli che non cercano argomenti ma nemici da odiare mentre mettono in moto il Suv, scoreggiano rumorosamente davanti al barbecue nel giardinetto della villetta a schiera e poi scacciano la puzza con l’asciugamani da cucina che tenevano sulla spalla, o ordinano all’architetto un set completo di rubinetti d’oro.

Però, al di là dell’obbligatoria difesa delle tre giudici, cosa significa la specificazione della loro terzietà, della loro diligenza e della loro capacità professionale?
Significa che «femminista» è male; che «comunista» è male.

Facciamo che non dico niente del «comunista».
Ma sul «femminista» qualche cosa da dire ce l’ho.

Cosa c’è di male nel femminismo, vorrei chiedere.
Se non fosse stato per il movimento femminista, in Italia non ci sarebbero stati il nuovo diritto di famiglia del 1975, le leggi sul divorzio e sull’aborto. Le donne sarebbero ancora alle prese con i problemi di cui parlano le loro lettere ai giornali di fotoromanzi raccolte nel volumetto del 1959 «Le italiane si confessano».

Lì, donne e ragazze parlano del loro terrore di essere scoperte non più vergini, anche quando il primo rapporto sessuale è avvenuto contro la loro volontà, per opera magari di un familiare; qualcuna dice di volersi suicidare per questo; altre temono di essere lasciate dal fidanzato se non gli si concedono, e nello stesso tempo temono di essere lasciate come una scarpa usata anche se gli si concedono.
Curiosamente, questo agghiacciante spaccato del dolore tutto femminile di vivere era parso a Pasolini – che del volume curato da Gabriella Barca aveva scritto la prefazione alle prime tre edizioni –

la più divertente lettura che io abbia fatto in questi ultimi anni.

Se non ci fosse stato il femminismo saremmo tutte ferme là.
Nel femminismo non riesco a vedere niente di strano.
Certo: va storicizzato.
Certo: una femminista cruciale come Germaine Greer non dovrebbe – l’ho sentita io, purtroppo – lamentare che «gli uomini aiutano ancora poco in casa le donne», né dire come un Berlusconi qualunque che Margaret Thatcher «non è una donna, ma un uomo».

Ma ciononostante, se mi definiscono femminista l’unica cosa contro cui posso ribellarmi è il fatto che mi venga affibbiata un’etichetta che non riesce a rinchiudere tutto quel che sono e riassume contenuti sui quali io voglio poter invece discutere, spiegando i miei perché.

Perché «femminista» dovrebbe essere offensivo?

L’automatismo in virtù del quale la reazione del tribunale di Milano è diventato il titolo di apertura di Corriere e Repubblica online (dopo un po’, il Corriere l’ha abbassato al secondo posto) mi fa riflettere una volta di più sul senso delle parole.

Un vecchio dalla reputazione politica e morale così risibilmente ristretta, privo – peraltro – di qualunque carica istituzionale, dice che le giudici che hanno sentenziato sulla sua separazione sono «comuniste e femministe», e a noi sembra di doverci difendere.
Più ci penso, più mi pare incredibile.
Più ci penso, più mi sembra che la lingua ha perso senso.
Più ci penso, più mi convinco che non c’è rimedio.