grillo e la censura

Non ho mai visto Ballarò (mai una puntata intera, perlomeno), non ho un’opinione radicata su Floris, e so bene cosa penso del giornalismo e dei giornalisti; non l’ho mai nascosto. L’ho scritto e riscritto.

Ma il fatto che un partito che ha preso il 25 per cento dei voti si permetta di tener fuori da una sua assemblea le telecamere di un programma motivando la scelta con l’argomento «non ci piace il vostro *format*» mi fa rabbrividire.

Quest’idea che chiunque possa fare il giornalista, sappia come si fa giornalismo, possa decidere cosa è una notizia e cosa non lo è, e in quale modo debba essere raccontata mi manda in bestia.

È il corrispettivo della censura interna, quella che subiamo quando lavoriamo nei giornali; solo che questa viene da fuori, e chissà perché dovremmo considerarla più democratica.

Vorrei essere chiara.
Non ho scritto che è sbagliato escludere una trasmissione televisiva, che mi piace quella tale trasmissione televisiva, o che mi piace il modo in cui si fa televisione, o giornalismo.

Ho scritto che quel che giudico inaccettabile è che si tenga fuori una trasmissione tv usando l’argomento «non ci piace il vostro format».

Quello che giudico inaccettabile è la pretesa che ci sia un modo giusto di fare giornalismo, e che a decidere quale esso sia creda di poter essere gente che non fa il lavoro del giornalista.

Quello che non mi piace è che chiunque ritenga di poter stabilire in proprio, secondo convenienza, quale «format» sia quello corretto.
Stiamo parlando di competenze professionali, qui. E io non credo di dover tollerare che si venga a dire come devo fare il mio lavoro di giornalista, quali cose siano notizie e quali no.

Al di là del ruolo deprecabilissimo di alcune trasmissioni tv, la pretesa di voler determinare il senso, il contenuto e il corso di un programma tv o di un articolo non decidendo se acquistare/vedere/leggere oppure no ma «prevenendo» la realizzazione di un «prodotto» (aargh) giornalistico è inaccettabile.

Se a farlo è un mio responsabile gerarchico, può anche avere un suo senso organizzativo (magari il suo senso politico è tutt’un altro, e si chiama censura).
Se la pretesa arriva dall’esterno, poiché senso organizzativo non ce n’è, io sono obbligata a darle il nome che la definisce meglio: è un tentativo di censura.

E per quanto possa detestare una trasmissione tv o un giornale, la censura mi fa ribrezzo.

Avendo sostenuto questo pensiero su Facebook, un commentatore mi ha eccepito che in realtà il movimento (sarà davvero un «movimento»? Io sono molto dubbiosa) intende solamente mantenere il controllo sul proprio messaggio.

Ecco.
E allora io mi domando: com’è che si criticava tanto il «centralismo democratico»? Il Pci non poteva e Grillo sì?
Questa è democrazia e quello era merda?

Non si può mantenere il controllo sui propri messaggi: la comunicazione è una relazione, e il controllo non può mai essere esercitato da una parte sola.
Non c’è bisogno di scomodare studiosi, credo.

E il giornalista ha il ruolo di mediatore.
Può piacere o no; si può considerare che il giornalista sia una chiavica; che il giornale faccia ribrezzo; che la trasmissione tv sia orrenda.
Ma tutto questo non comporta necessariamente la conseguenza che abolendo quel tipo di mediazione non se ne renda comunque necessaria un’altra.

Altro che «comunicazione diretta» e salvaguardia del proprio messaggio.

La salvaguardia del proprio messaggio dalle interpretazioni non autorizzate è una pretesa dittatoriale, antidemocratica, violenta.

Quando si comunica con qualcuno – quando si è vivi – non c’è altra scelta che accettare il rischio di essere fraintesi.
E amen.
Perché la vita è questa cosa qui.
Non si sterilizza la vita. Non si protegge dai microbi né dai batteri.
Non c’è vaccino contro il fraintendimento. Se non una buona spiegazione, e l’accettazione della dialettica.

Postilla: non capisco come si possa non vergognarsi ad appoggiare da sinistra posizioni censorie e illiberali come queste.
Credo che ci sia – scusatemi – da vergognarsi molto.

Non è questione di etichetta.
Magari lo fosse.
È questione di democrazia.
Non voglio la «sorgente legittimata». Voglio correre il rischio del fraintendimento.
Non voglio gente che vuole «mantenere il controllo sui propri messaggi».

Sempre su Facebook, mi si eccepisce che Grillo e i suoi sono semplicemente ancora nella fase del marketing, che precede quella della politica, e non è certamente una fase democratica.

Io penso che non passeranno mai dal marketing alla politica, perché se passano alla politica implodono.

È la stessa cosa del maggioritario, a me sembra: obblighiamo alle alleanze, si argomentava, così avremo governi più stabili.
Come se, per esempio, in una coppia che bisticcia la semplice proibizione del ricorso al divorzio potesse obbligare a nuovi ed efficaci negoziati di pace.

In realtà, non c’è un metodo capace di creare accordo sui contenuti.
A meno che non si faccia diventare contenuto il modo: ed ecco perché questi grillici devono tacere, ecco perché devono cacciare i giornalisti.
Perché devono creare il contenuto del «grìllico-vittima», del «grìllico-parresiaste», del «grìllico-vendicatore».

È stupefacente che tutto questo non preoccupi a morte l’intero Paese.
È stupefacente che Repubblica si dedichi ai resort in America Latina o dove diavolo c’è stata questa cosa del resort-non resort, e agli appelli firmati dai Grandi Nomi.

Un altro commentatore mi ricordava che alcune trasmissioni televisive sono state – e qui mi citava (grazie, Umberto) – «il principale spazio mediatico per la costruzione del paese dei buoni e dei cattivi».

Ma quel che io penso è che proprio pretendendo l’esclusiva sulle loro stesse parole, rifiutando la mediazione, proponendo una comunicazione a senso unico, sostenendo implicitamente l’esistenza di una purezza (la loro) da non contaminare, i grillici possono – così sì – fissare il confine fra «io-buono/positivo/cazzuto/coraggioso/onesto/specchiato/morale» e «*loro*-merda/negativo/ smidollato/servo/schifoso/venduto/immorale».

«Dovunque stia Floris, io voglio stare dall’altra parte della barricata», continua il mio interlocutore.

Scelta legittima. Ma né il commentatore né io abbiamo la responsabilità politica di gestire il peso del 25 per cento dei voti.
E quanto al suo argomento, lo capisco così bene che non sono nemmeno andata a votare.
Io non sono andata a votare perché dove c’è tutto questo io non posso essere.

E giusto per arrotondare un pochino il mio pensiero.
Io non ho capito perché per giudicare Grillo e il suo «movimento» (perdonate le virgolette, ma non sono affatto certa che sia un «movimento») dovrei aspettare un altro po’, io come tutti.

Non può bastarmi e avanzarmi, così come in effetti mi basta e mi avanza, quel che ho visto e sentito fino ad ora?
Facciamo l’esempio di un tale, un tale qualsiasi, che per la strada dice «ah, io i neri e i meridionali li manderei tutti ai campi di lavoro».

Prima di dire che quell’affermazione e la protervia con la quale essa viene fatta mi spaventano, prima di dire che disapprovo queste parole e quest’atteggiamento, devo forse aspettare che questo tale dimostri di avere forza sufficiente a mandare veramente i neri e i meridionali ai campi di lavoro?
O ho forse la facoltà di preoccuparmi prima?

No, perché per come le persone che stanno nel «movimento» di Grillo la mettono giù sembra che si debba solo tacere, perché chiunque parli è venduto e vuole fare secchi i «grìllici» per biechi motivi d’interesse.
L’idea che ci sia qualcuno che può avere idee differenti non sembra sfiorarli nemmeno, molti.

E nemmeno, come diceva un collega nella sua bacheca di Facebook, l’idea che ognuno deve fare il suo lavoro.

Un giornalista fa il suo quando non guarda in faccia nessuno. Se un giornalista le cui idee sono, per ipotesi, vicine a quelle del Pd (ammesso che il Pd abbia idee riconoscibili come «idee del Pd») mette in difficoltà il Pd (lavorando in modo deontologicamente corretto, ovvio), be’, quel giornalista fa *solo* il suo lavoro, e nessuno ha il diritto di accusarlo di aver sparato contro un partito.

Perché in realtà sono molti di più coloro che sono servi, nei giornali.
Raramente si parla male di qualcuno (e se lo si fa, vediamo tutti con quali risultati: il livello di approfondimento è così .
Molto più spesso si parla bene di chi paga lo stipendio a chi scrive, o di coloro a cui coloro che pagano lo stipendio devono le loro fortune.

E infine, quasi come post scriptum.
Leggo che Grillo (o Casaleggio, adesso non ricordo più: chiedo scusa) ha detto questo:

«Il peggio sono i media. Forse i giornali locali vanno bene. Ma quelli che formano l’opinione pubblica, i sette canali televisivi e i tre giornali» maggiori «fanno parte del sistema».

Solo una persona ignorante di cosa sia l’informazione può esprimersi in questo modo.
Ma davvero Grillo (o Casaleggio) crede che l’editoria locale non sia parte di ciò che chiama «sistema» (di potere, immagino)?
E, sentiamo: cosa formano, i giornali locali, se non l’opinione pubblica?