nel nome del padre

Non è che nel caso del bambino di Cittadella – questo – io sappia se ha ragione il padre oppure la madre, ma mi pare che dopo una prima serie di articoli nei quali il prelevamento poliziesco del piccolo da scuola veniva visto secondo un’ottica apparentemente più favorevole alla madre, ora l’eroe della situazione sia diventato, da un po’ di tempo, il padre.

Leggiamo qua, per esempio (dal pezzo linkato poche righe più su):

Diversa è la versione dell’uomo, che afferma di aver preso la decisione di lasciarlo andare per non turbarlo e per non ricadere nelle stesse scene di tre mesi fa. Così gli ha messo giubbetto e berretto al bambino, e, pur con un nodo alla gola, gli ha spiegato che si sarebbero visti presto e, con tutta la calma e la serenità di cui quel bimbo ha bisogno, lo ha consegnato alla mamma senza discussioni.

Mi domando: il cronista era là?
Il cronista sa cose che noi non sappiamo, ma non ce le dice?
Sa che la madre è una stolta? Sa che vuole il male del figlio?
Il cronista proprio non riesce a non parteggiare così apertamente per il padre, così pacato, equilibrato, sereno?

Quanto alla madre, be’, si tratta di una persona con un’ostinazione ai limiti del patologico, certificata dal cronista come donna capace di fare cose «pericolose»:

La donna ha presidiato l’entrata della struttura per ore chiedendo di potersi portare a casa suo figlio. Affinché non accadesse nulla di pericoloso la signora è stata fatta entrare.

Chissà qual era la cosa «pericolosa» che è stata scongiurata.

E qui, in un pezzo del 6/7 marzo:

Guai a te se esci. Guai a te se lo tocchi. Papà Michele che un po’ si sente un angelo salvatore e l’altra mattina arriva alla solita casa d’accoglienza, una quieta villetta di tre piani in una zona tranquilla di Padova, pronto a prendere il suo Leonardo per portarselo fuori.
Mamma Ombretta che nell’ombra non ci vuole stare e sempre armata di videofonino, oltre che del robusto aiuto dell’anziano padre, si piazza sulla strada sterrata, ben decisa a evitare che l’ugualmente suo Leonardo se ne vada. «Eccoli! Fermo! Non puoi uscire con lui!…».
Il papà che afferra il figlio e scappa dentro. La mamma e il suocero che li inseguono fino alla porta vetrata. Urla. Spinte. Qualche pugno. La serratura che scatta.
E la rissa da ballatoio dei Roses padovani, lunga quanto gli 11 anni del loro bambino, che si trasforma in una guerra col ponte levatoio: Michele barricato nella casa due giorni e due notti, Ombretta e i suoi parenti che si danno il turno a piantonare davanti e tutt’intorno, dormendo in macchina e organizzandosi per i pasti e i bisognini, perché il nemico non trovi un sotterfugio e scappi con la preda d’amore.

Quel pezzo è stato scritto il giorno dell’udienza in Cassazione:

Oggi il caso finirà per la terza volta davanti ai giudici (di Cassazione) che dovranno stabilire: lasciarlo in quella casa d’accoglienza, dove fu portato dopo il blitz che indignò i tribunali tv dei talk-show, affidato al padre e ad assistenti sociali che possano «resettarlo» nell’affetto «dopo anni in cui è stato cresciuto nel risentimento»?
Oppure accogliere il ricorso della madre – «è una privazione inaccettabile, mio papà e mia sorella non l’hanno potuto abbracciare neanche a Natale» -, che ***per i giudici*** ha quasi plagiato Leonardo e perciò lo può vedere solo tre volte la settimana, non più di due ore?

Per i giudici (dell’appello) la madre ha quasi plagiato il figlio.
Per i giudici di primo grado, però, no.
E per la Cassazione, adesso, c’era nella sentenza di secondo grado un difetto di motivazione, che non sappiamo qual è.

Madre isterica, padre sereno ed equanime.
Può essere: ma io come posso crederci, se nessun pezzo mi porta le prove?
E soprattutto: perché la situazione deve essere affrontata in questi termini – isterici contro pacifici – e non, semplicemente, come un racconto in cui non si prendono le parti di nessuno, o si dà conto fino in fondo delle ragioni di entrambi, senza ricorrere a un’aggettivazione suggestiva?