socialità mercantile

crisi Mi fa impressione questo titolo nella foto qui a sinistra.
Sostenere che la chiusura dei negozi desertifica le città – al di là del fatto che possa essere un dato di fatto – equivale a dire che non esiste una forma di socialità comune, capace di animare di presenze una città, al di fuori della prospettiva mercantile.

Immagino che il punto stia effettivamente qui, e cioè nel fatto che non c’è prospettiva collettiva al di fuori di quella mossa dal denaro; parlo di quelle iniziative delle quali tanti sindaci circondati dell’aura positiva di micro-statisti pragmatici parlano come di ‘eventi’ che muovono l’indotto, creano utili conseguenze economiche.

Anche ammettendo che non ci sia alternativa alla via commerciale verso una vivacità urbana, a me continua a sembrare necessario dare risposta a una domanda.
Questa domanda: ma chi sono, davvero, coloro che traggono un guadagno dalla ‘vivificazione’ sintetica e mercantile degli spazi urbani?

Se sono i commercianti, perché io dovrei esserne politicamente impressionata in modo positivo?
In che misura il loro interesse è interesse mio?
In che misura è interesse della città?

E infine: esiste davvero qualcosa di simile a un omogeneo ‘interesse della città’?

Io penso di no.
Non so rinunciare all’idea di essere – io come chiunque – una parte, e non la totalità.
È per questo che l’idea del collegio uninominale, che implica la legittimazione dell’esistenza di un singolo rappresentante politico di un territorio, mi sembra un modo orrendo di intendere il senso politico della collettività.