emigrante

foto (95)Okay.
Mettiamola giù come va messa.

Io sono un’emigrante.
Tornerò, a Verona ho ancora una casa per la quale pago l’affitto; ma sono un’emigrante.

Chi mi guarda, mi vede come un’emigrante.

All’università sto sperimentando emozioni miste.
A volte imparo cose nuove che mi convincono.
A volte imparo cose nuove che mi sembrano idiozie, come questa cosa di una frase un concetto massimo venti parole soggetto verbo complemento.
A volte mi rendo conto che – quando si tratta di questioni generali o tecniche, valide in tutti i Paesi – so più cose degli insegnanti, e ho più esperienza di loro, e ho rifatto decine di prime pagine dopo le 23, e ho rifatto centinaia di volte le pagine perché succedeva qualcosa di nuovo, e ho riportato in italiano centinaia di pezzi scritti in lingue speciali e sconosciute, e ho titolato migliaia di pezzi, disegnato migliaia di pagine, studiato il layout di migliaia di architetture.

Per studiare qui pago, e non ho uno stipendio.
Pago, ma se faccio domande spesso non ottengo risposte.
Mi guardano con un’aria dubbiosa.
Io entro in paranoia, e penso che avere un Proficiency in inglese non serve a un cazzo, e mi la lingua mi si arriccia sulle parole, i neuroni si arrampicano sul versante sbagliato della sintassi, quello senza sporgenze a cui aggrapparsi, e il mio inglese diventa quello di una bambina con le treccine che parla solo l’italiano, e a voce bassa.

I compagni di corso parlano veloci come un treno italiano non è mai andato.
Risalgono Himalaya di parole come se fossero teletrasportati, una parola rovina addosso all’altra in un’orgia di dentali che si accavallano, in una musica che non segue nessun ritmo a cui io mi possa affidare.

Ho chiesto centinaia di volte se possono parlare un pochino più lentamente, per favore.
Ma loro ridono, e non lo fanno.
Non lo fanno loro e non lo fanno gli insegnanti, che – quando lo chiedo – mi prendono (amabilmente? Forse, ma come fai a saperlo quando ti mancano le coordinate per la comprensione degli impliciti sociali e culturali?) in giro.

Mi piacerebbe che le persone fossero più gentili.

Evidentemente, per queste persone è normale che una donna della mia età prenda baracca e burattini, lasci il lavoro, emigri con l’intera famiglia.

Credo che non ci sia stato nessuno, fino ad ora, disposto a rendersi conto che io sono in difficoltà, e che chiedo aiuto.

Ho scritto anche una mail a tutti i compagni di corso, chiedendo loro di darmi una mano, di parlare più lentamente.

Mi hanno risposto in due.

Sono molto competitivi. Se sanno una cosa non la dicono a meno che non ci sia un insegnante a portata di orecchie.
Hanno un alto concetto di sé.

Be’.
Insomma.
Tutto questo per dire che andare a studiare fuori quando non sei un ragazzo si chiama emigrare.

E emigrare è una faccenda molto complessa, in cui entra in gioco tutto.

Sono molto affaticata.

A volte penso che c’è della gente che prende lo stipendio al posto mio e la sera torna a casina sua.
Abbiamo software diversi, forse.

Ma anche l’ingegnere che ha progettato gli irlandesi era un bel tipo, eh.

Vado a fare la studentessa del cazzo.
Un saluto a chi passa per di qua.