il diritto di parlare

Avviso: questo post è abbastanza lungo
Per il sommo Cofferati «è inaccettabile che una piazza venga trasformata nel luogo dell’intolleranza. Tutti devono essere messi in condizione di poter sostenere pubblicamente le proprie tesi e le proprie opinioni e a nessuno deve essere impedito di parlare».
«Tutti devono essere messi in condizione di poter sostenere pubblicamente le proprie tesi e le proprie opinioni»: e perché mai Cofferati dice «tutti» ma pensa solo a Ferrara? Anche gli altri, i manifestanti, stavano pubblicamente esprimendo le loro tesi! E perché mai loro sarebbero dovuti rimanere in silenzio? Per buona educazione? Vuole gentilmente Mr. Law&Order accettare che la buona educazione la devono eventualmente insegnare i genitori e non i sindaci? Dov’era la violenza contro Ferrara?

E la Mafai avverte che – fosse stata l’altra sera a Bologna – sarebbe «stata dalla parte di Giuliano Ferrara, contro coloro che con la violenza gli hanno impedito di parlare».

Queste prese di posizione mi ricordano quelle che molti saggi hanno ritenuto di dover esprimere all’indomani della lettera che i 67 docenti della Sapienza avevano scritto al rettore contestando l’invito rivolto al papa per l’inaugurazione dell’anno accademico.

Fatemi la grazia, ve ne prego: ditemi in che cosa consiste la violenza con la quale tanto al papa – che per sua libera scelta, peraltro un’ottima scelta dal punto di vista del marketing della «martirizzabilità» – quanto a Ferrara è stato impedito di parlare (Tra l’altro, avesse avuto degli amplificatori più potenti, forse ce la faceva anche, a dire quel che aveva da dire). Ho sentito Michele Smargiassi, il giornalista di Repubblica ferito alla testa da una sedia dopo che il comizio era finito (per dire che mentre parlava Ferrara nessuno ha tirato nessuna sedia), raccontare che all’indirizzo di Ferrara sono partite monetine, uova e pomodori (che non risulta esprimano concetti più violenti del dileggio o abbiano capacità offensive di peso). Nel video della contestazione ho visto che i ragazzi in piazza gli gridavano cose anche forti, ma niente che un paio di spalle come quelle di un normale politico non debbano essere in grado di sopportare per statuto professionale, come precondizione.

In realtà anche in questo caso torna sempre la stessa inversione di realtà. Noi democratici dobbiamo assolutamente sempre difendere il diritto degli altri di parlare – ci spiegano gli splendidi soloni – e allora il nostro dovere è lasciar parlare tutti.
Eh no.
Eh no.
Noi democratici abbiamo il dovere di difendere il diritto di chiunque a parlare quando l’esercizio quel diritto dovesse venirgli eventualmente impedito da un potere o da una legge. Da qualcuno che è – come dire? – gerarchicamente sovraordinato ai singoli cittadini nell’assetto istituzionale. Da qualcuno o da qualcosa contro cui le nostre forze individuali non bastano perché se ci proviamo veniamo portati in questura o in caserma.
Non quando in una situazione di normale dialettica democratica (e cos’è la campagna elettorale se non la massima espressione della dialettica democratica?), senza sfoderare né pistole né coltelli né mazze né bastoni né fucili né chissà che altro, duemila persone contestano pubblicamente a voce qualcun altro che si è assunto la responsabilità di essere un politico, e non un privato cittadino.

Sempre lì si va a sbattere: tutti i sinceri democratici di questi anni spostano sempre il punto della questione su un nodo asseritamente «tecnico», e mai politico, mai di contenuto. Protestare è male perché impedisce agli altri di parlare, dicono. Va bene. Ma vogliamo tenere in considerazione anche l’argomento del quale si sta parlando? Vogliamo tenere presente che nessuno ha fatto del male a Ferrara? Vogliamo tenere presente che quella gente contestava affermazioni e posizioni politiche? Vogliamo tenere presente che quelle urla (e monetine, e uova, e pomodori: non proiettili!) erano una legittima espressione di un legittimo disaccordo in una legittima dialettica democratica? O no?
Io non lo sopporto più questo atteggiamento. Nessuno – come dice invece la Mafai – ha tolto a Ferrara la parola «con la forza». Nessuno gli ha tirato via il microfono. E lui ha ritirato all’indirizzo della folla i pomodori che gli erano arrivati, urlando – aveva un microfono di cui i manifestanti erano privi, lui – che erano sessant’anni che quella gente rompeva i coglioni.

Di questo passo, se le donne tornano per le strade a manifestare per la legge sull’aborto o per qualunque altra cosa unendo gli indici e i pollici nel segno che è diventato il simbolo femminista, su un giornale qualunque leggeremo di un Cofferati qualunque che le rimprovererà di essere state maleducate, di avere scandalizzato gli altri, di essere state violente nel non tenere in conto la sensibilità altrui.

Chiudo citando un sublime inciso della Mafai: «Può essere molto breve la strada che, dal gusto un po’ infantile del dileggio, conduce al più robusto piacere della violenza».

Non ho parole. Solo lacrime.