non c’è mondo fuor di queste mura

Mi inchino con gesto amplissimo a Giuseppe D’Avanzo, che sulla Repubblica mette in fila testimonianze e considerazioni sull’omicidio di Nicola Tommasoli.

Penso di poter dire che questo pezzo di D’Avanzo è uno dei pochissimi esempi di reportage che sa tenere in conto la complessità della vita e delle cose, e – soprattutto – è espressione di un pensiero che argomenta pezzo per pezzo le proprie affermazioni di modo che al lettore sia sempre possibile decidere che il suo consenso o il suo dissenso cominciano lì oppure si fermano là.

In generale, per quanto di nullo interesse questo certamente sarà a chi mi legge come a D’Avanzo stesso, D’Avanzo mi piace come può piacere un giornalista, non un uomo di lettere: e cioè per la sua capacità di – mi ripeto – mettere in fila fatti significanti prima ancora che significativi; anche se recentemente qualche delusione me l’ha data pure lui, ma vabbè.

A Verona lo attaccheranno, adesso. Diranno che non è stando uno o due giorni qui, tra queste strade pulite su cui si affacciano palazzi meravigliosamente restaurati (in omaggio al concetto che la città è prima di tutto luogo di decoro, e il resto – se c’è – vien dopo), e magari alloggiando in un albergo a cinque stelle, che si può apprezzare l’infinita e variegata e ricchissima eccellenza morale, politica, professionale, imprenditoriale e religiosa che questa città custodisce, insieme alla sua meritoria capacità di produrre ricchezza.

Esperti del settore diranno che da uno che ha sbagliato il nome di battesimo del sindaco e ha attribuito la citazione «non c’è mondo fuori da queste mura» ad Amleto invece che a Romeo non ci si può aspettare un’informazione di qualità come quella che invece fanno loro tutti i giorni lavorando senza sosta e soprattutto senza inseguire lo scoop come invece fanno i giornalisti da quattro soldi.

In città, dal macellaio, dal fruttivendolo, nei bar degli aperitivi, sui banchi del consiglio comunale, in coda al supermercato (perché – qui come altrove – non c’è più alcuna differenza fra registri di conversazione e profondità di analisi da utilizzare in situazioni così diverse), diranno che Verona non è razzista, è accogliente.

Che non tiene fuori i «diversi», ma solo quelli che – per esempio – non hanno abbastanza soldi per mantenersi, perché chi è povero forse sbanda, soprattutto se è straniero e non ha avuto le amorevoli cure di una mamma veronese che gli spiegasse il giusto e lo sbagliato; e chi sbanda si chiama sbandato, e chi è sbandato dovrebbe per gentilezza (se sa cosa vuol dire la parola «gentilezza», bene; e sennò faremo da soli con un gentile calcio nel suo cu**) attestarsi fuori dalle mura della città.

E naturalmente non è che lo cacciamo perché siamo razzisti, o perché – semplicemente – il nostro credo è «escludere»; lo facciamo solo per ragioni tecniche.

Veniteci a dire che siamo fascisti, avanti; e noi vi spiegheremo che sinistra e destra non esistono più, di che cavolo state blaterando.
Veniteci a dire che diamo copertura politica ai ragazzi che in centro picchiano i coetanei da un paio d’anni, avanti; e noi vi spiegheremo che quelli non sono né di destra né di sinistra ma sono soltanto deficienti, o imbecilli.

Se c’è una cosa che impressiona è che all’improvviso le categorie politiche non esistono più. O imbecilli (cioè tifosi violenti e picchiatori) o niente.

Ma come?
Non sono loro stessi a definirsi persone di destra?
Non l’hanno detto proprio i cinque ragazzi in carcere per l’omicidio? Che poi sia omicidio preterintenzionale o volontario, tra l’altro, si vedrà.
E come si può d’altra parte trascurare l’ipotesi che si sia trattato di una fattispecie colposa, come dice la difesa? Come essere certi che Nicola non sia morto perché era malato di suo, di modo che quel calcio ne ha solamente senza dolo né malizia accelerato una sicura dipartita?
O come negare la possibilità che si sia trattato di una rissa in cui i cinque sono stati provocati?
Già. Come?
Vedremo quanta strada farà quest’argomento; prevedo però che ne farà parecchia.

Sì, ti rispondono (con l’autorevole avallo di un incredibile Massimo Cacciari, sentito sul punto ieri sera da Gad Lerner): loro dicono che sono di destra, ma in realtà non lo sono perché non hanno mai letto niente della cultura di destra, non sanno niente di ciò che significhi essere di destra. L’argomentazione di Cacciari, ieri sera, era questa.

Cerchiamo di capirci, però: se per loro essere di destra (pur se non all’interno di un’organizzazione con statuto e organi assembleari) significa anche menare – non dico uccidere, ma menare – bisognerà pure che qualcuno si domandi il motivo per cui l’equivalenza sono di destra perciò sono uno che mena germogli con questa candida naturalezza nei cuori di tanti ragazzi. O no?

E poi: se uno qualunque degli osservatori, in mancanza di dichiarazioni con cui i cinque aggressori si riconoscevano appartenenti alla destra, avesse tratto la conclusione che, dal modus operandi e dal tipo di giri in cui erano inseriti, questi ragazzi erano di destra, in molti sarebbero insorti eccependo che loro non avevano fatto la minima menzione ad alcuna appartenenza politica: con quale diritto, perciò, si infangava un’intera parte politica strumentalizzando una tragedia?
Dunque, riepilogando: se loro non si fossero dichiarati di destra, definirli di destra sarebbe stato illegittimo; fango addosso a una parte politica.

Ma loro hanno detto di essere di destra.
Dunque, chiunque dovrebbe teoricamente essere legittimato a ripeterlo.
No. Sbagliato.
Loro non sono di destra perché:
a) «Non sono negli elenchi degli iscritti delle nostre associazioni»;
b) «Sono solo deficienti e imbecilli; il problema è lì»;
c) «Non hanno l’attrezzatura ideologica e culturale sufficiente per potersi definire di destra, e il loro modo di vivere nel mondo risente di un pesantissimo disagio sociale» (questa è la versione di Cacciari).

Ne deriva – attenzione perché la cosa è curiosa – che nessuno che abbia realizzato un pestaggio per strada o allo stadio o abbia fatto cori razzisti può mai, in nessun caso, essere ritenuto di destra.
A meno che oltre a dichiararsi di destra (ma abbiamo visto che la chiamiamola «confessione» non basta) non abbia in tasca anche una tessera di qualche organizzazione formalizzata.

Se però poi la tessera ce l’ha, scatta immediatamente – come già s’è visto in altre occasioni – la fase due.
Che è «no. Non ha fatto niente. I magistrati hanno esagerato, sono toghe rosse.
È stato provocato» dai tifosi avversari, dalla stampa avversa, dai comunisti, dai centri sociali, dai pulcini, dalle galline. Da chiunque.

Voglio solo citare qualche frase riportata da D’Avanzo: «A Verona può capitare – e capita spesso – che si senta dire in autobus “non siedo qui, accanto a questo negro” e nessuno che, intorno, disapprovi o censuri quelle parole… Magari chi le ascolta non oserebbe mai pronunciarle, ma le giustifica».

E ancora: affermare che tutto questo sia politico «non vuol dire che ci sia un partito politico, una fazione di un partito politico, un gruppuscolo che organizza o programma quelle violenze. Vuol dire che c’è a Verona una “cultura” dell’esclusione che irrigidisce e sorveglia il confine tra “noi” e “loro”, e “loro” diventano anche quei veronesi – moltissimi, e tra i moltissimi Nicola – che rifiutano o non avvertono il “potere seduttivo” di quell’“appartenenza”».

E poi: il vescovo «immagina di inviare sms per conto di Nicola. Scrive: “Abbiate fiducia nelle grandi vette. Valorizzate i giorni della giovinezza. Fatevi onore. Fateci vedere quanto valete. Realizzate una vita di grande qualità, degna dell’essere giovani”. Come se esistessero soltanto le scelte personali e non anche le responsabilità collettive (il corsivo è mio), i modelli culturali, i quadri pubblici, l’assenza della benché minima opera di manutenzione sociale (senso civico, legalità). Come se Nicola e Raffaele non fossero caduti su quella trincea profonda e invalicabile scavata in città tra il “fuori” e il “dentro” di un territorio e di una comunità».

E infine: «Al portone del Bra»… «è scolpita una frase dell’Amleto: “Non c’è mondo, fuori di questa città”. C’è a Verona chi sembra crederlo per davvero».
Tantissimi.
E te lo ricordano di continuo, senza neanche accorgersene…