mi è d’avanzo un travaglio: la viltà e la professione

Travaglio e D’Avanzo hanno stile, e anche qualche tratto di grazia. Hanno pensieri solidi, attrezzatura professionale adatta alle scalate più impervie, esperienza sufficiente a dotarli di autorevolezza.
E anche adesso che sono in pubblica lite su una vicenda molto spinosa – quella nata a margine dell’intervista in cui Travaglio disse nel programma di Fabio Fazio che il presidente del Senato Schifani ebbe frequentazione con persone poi condannate per mafia – entrambi conservano un tratto composto pur nella durezza delle argomentazioni.

L’altro ieri su Repubblica, D’Avanzo attaccava a testa bassa (e con il garbato livore dell’uomo beneducato che s’è tenuto dentro una cosa per più tempo di quanto gli sarebbe piaciuto) ciò che definiva il «metodo giornalistico Travaglio».

Per dimostrare il suo assunto – che non sempre i fatti contengono l’unica verità che sembra evidente a una loro prima lettura – D’Avanzo addebitava al collega contatti ancorché episodici con persone vicine alla mafia.
Era una critica sibillina nei contenuti («anche Travaglio conosce i mafiosi»), ma «tecnicamente» condivisibile nel metodo, nella parte in cui pone l’accento sulla spinosità a volte demagogica dell’equazione fatti-uguale-verità-assoluta-senza-necessità-di-contestualizzazione.

Dopo una prima risposta all’ex collega di testata (pubblicata ieri), oggi Travaglio torna a scrivere, e replica con una lettera ruvida, rispettosa, arrabbiata e composta, sempre su Repubblica.

Il punto del contendere è sottile e importante: se sia professionalmente legittimo oppure no connettere fatti (e di che tipo) allo scopo di rendere possibile la formazione delle opinioni; e, nel caso in cui lo sia, quale ruolo debbano avere quelle opinioni nel discorso pubblico e politico.

Sulla vicenda in sé ho qualche idea, ma non mi sembrano idee così essenziali.

Quel che mi preme, invece, è dire questo: che questo modo di affrontare le questioni – anche quando sono come in questo caso serie questioni professionali, e non volgari bisticci da meretrici che si contendono lo stesso lampione sul marciapiede giornalistico – è un ulteriore ed ennesimo indizio della gravissima crisi deontologica che sta vivendo il mio lavoro, che si sta come corrodendo per consunzione.

Un giornale dovrebbe essere il risultato della corretta e laboriosa applicazione collettiva dei giornalisti, e il lavoro di tutti dovrebbe essere concordemente orientato a un unico scopo: rendere le informazioni patrimonio dei cittadini.
Non c’è notizia che possa mai andare nascosta o sottaciuta.
Non c’è interesse da tutelare che possa essere diverso da quello del lettore: non quello di un potere qualunque, interno o esterno ai giornali; non quello delle proprie convenienze economiche o di carriera; non quello dei propri conoscenti; e nemmeno quello del puro e limpido giovamento alla propria causa ideale, sia pure senza alcun tornaconto economico.

Non è che vivo su Marte: so che tutto questo è la teoria, e che in realtà le cose sono diverse.

Ma colpisce molto vedere che per la mia categoria le occasioni di discussione su questi temi sono a tal punto sostanzialmente inesistenti da essere concentrate nel buco nero delle polemiche apparentemente personali o – peggio, molto peggio – nelle fognature dell’anonimato digitale in cui scorrono fiumi di liquami dialettici: quelle cose che fingono di essere strumenti di grande democrazia e poi diventano strumentali (se consapevolmente o no, dipende da esperienza, moralità e intelligenza) al compimento di meschine vendette.

In pratica: o si bisticcia uno alla volta, o ci si prende a pesci in faccia anonimamente, in preda a un deficit di coraggio.
Non c’è nessun comune terreno (culturale) pubblico su cui confrontarsi.
Tertium non datur: è desolante.

Eppure, il coraggio e la capacità di non farsi intimidire (e di non sentirsi intimiditi) sarebbero caratteristiche di cui questo lavoro assolutamente non può fare a meno. Non l’eroismo, che è un’altra cosa (e non si può chiedere a nessuno; chiunque lo faccia è certamente in malafede); ma il coraggio sì. Il coraggio occorrerebbe.

È quest’assenza di coraggio che, nel mio mondo professionale, mi impressiona.
Quest’incapacità di pagare i prezzi che ci sono da pagare. Fosse anche solo il prezzo – dolorosissimo, per carità – di comprendere fino in fondo che si è perso, e che la sconfitta (professionale, deontologica, civile; e solo per questi tre aspetti anche politica) è stata profonda e radicale.

Qualcuno, particolarmente i più inesperti o i meno avveduti, confonde l’amara (ma vivificante) consapevolezza della sconfitta con la vigliaccheria; ma fa un errore.

Anche perché questo lavoro è costruito in modo tale per cui il massimo del «successo» che ti può regalare è la ventura di essere cooptato nell’«olimpo degli eletti».

Cosa che – essendo l’esatto contrario di quello che, cominciando a fare il giornalista, uno possa augurarsi di ottenere – è un’ottima ragione per diventare molto scettici sul valore sociale del proprio lavoro.