giornalisti, o tribuni della plebe?

L’altra sera l’avevo sentito mentre lo diceva in diretta tv ad Annozero e mi era sembrata una frase carina, gentile; ieri sera ho rivisto quelle affermazioni scritte e ho cambiato idea: non è una frase carina, ma una frase che a ripensarci mi pare brutta. Eccola; era più o meno così: «Vai avanti, perché la gente è dalla tua parte, la gente ti ama».

A dirla è stato Michele Santoro, che si rivolgeva affettuosamente a Marco Travaglio, attaccato in questi giorni da più fronti, e – per quel che riesco a vedere io che da qui non capisco i retroscena – in modo ingiusto.

Io comprendo che in situazioni professionalmente ed emotivamente difficili come quelle in cui vivono molti giornalisti (più di quanti si creda, e molto meno conosciuti di Travaglio e di Santoro), un giornalista possa essere indotto a manifestare solidarietà a un collega con parole come quelle di Santoro.
E capisco anche che per Travaglio non dev’essere bello portare il peso di essere l’«eroe», una specie di giustiziere, solo perché sa dove cercare alcune carte, sa leggerle, sa connettere i fatti, sa scriverli e sa spiegarli. E sarà anche stanco, immagino, di passare per uno di sinistra.

Però: perché dirgli che la gente è dalla sua parte? Che senso ha che la gente sia dalla parte di un giornalista? Il giornalista ha forse una sua parte?
Che cosa siamo diventati?
Siamo capipopolo?
Non so: questa cosa non mi piace.


Mi rendo conto che, purtroppo, ai giornalisti tocca sempre più spesso assumere responsabilità che a rigore non spetterebbero loro.
Mi rendo conto che nel vuoto di rappresentanza politica indotto da un’ideologia che riduce al risvolto aziendalistico-gestionale il governo della cosa pubblica, un giornalista possa sentirsi spinto a urlare ciò che vede e ciò che sa: per il bisbiglio (cioè per un articolo normale) non c’è più spazio, d’altra parte, perché il posticino delle notizie è già tutto occupato dalla propaganda.

Capisco che un giornalista sia indotto a dire chiaro e forte, e in una volta sola, che il re è nudo, perché non sa quando ancora gli capiterà di poter parlare.

Mi rendo conto che un giornalista sia portato a replicare con inevitabile veemenza agli attacchi di chi gli rimprovera il protagonismo, o – peggio – di essere egli stesso esponente della cosiddetta «casta» (la categoria interpretativa più squallidamente squadrista di questi mesi).

Molte persone pensano che i giornalisti per antonomasia siano coloro che commentano, gli editorialisti; in realtà il giornalista vero è il cronista, quello che raccoglie le notizie e cerca di non commentarle.
Però svolgere questo secondo pezzo di professione è sempre più difficile per molti motivi, uno dei quali è anche il fatto che decine di portavoce e di uffici stampa e di uffici relazioni esterne e di addetti alle pubbliche relazioni pretendono, riuscendoci, di canalizzare la realtà negli alvei decisi dai loro datori di lavoro, e non tollerano deviazioni dal percorso segnato.

In questa situazione, per cercare le notizie bisognerebbe prima liberarsi da dense e inquinanti cortine fumogene.
Questo è estremamente faticoso, e costringe a una quotidiana strenua difesa di spazi di manovra progressivamente sempre più piccoli, sempre più residuali, da conquistare con sforzi progressivamente sempre crescenti, e in una situazione di sempre maggiore isolamento.

Ma con tutto questo, però, io continuo a domandarmi: ha senso che un giornalista venga consolato da un collega con l’argomento che la gente è con lui?