leggi razziali, la politica non c’entra

Il bello è che non lo faccio mica apposta. Però tutte le volte che leggo di una presa di posizione delle gerarchie ecclesiastiche di vario ordine, di vario grado e di varia «insiderness» nell’establishment (ammazza, che cultura), mi càpita – ci sarà un suo perché – di non essere d’accordo.

Repubblica.it mi dice che «sulla questione della sicurezza e dell’immigrazione, arriva anche il monito dei vescovi: “L’errore maggiore sarebbe buttarla, per l’ennesima volta, in politica”, dice in una nota la Sir, l’agenzia che fa capo alla Cei; perché, altrimenti, “una questione vera, per l’Italia come per molti Paesi europei”, rischia “di diventare un affare ideologico, l’alibi per schiamazzi e contrapposizioni, per eludere, anziché risolvere i problemi”».

Cioè, capiamoci: discutere se abbia senso o no fare un provvedimento ad genus (cioè mirato specificamente a una specifica razza, così come le leggi ad personam miravano specificamente a una specifica persona), per la Sir non è una questione che si possa buttare in politica, perché sennò diventa – ohibò – ragione di «schiamazzi».
Gli schiamazzi – si sa – son maleducazione, roba da plebei; e i vescovi invece son gente molto equilibrata e perbene…

Ma se una cosa del genere non è politica, cosa diamine è?
Se una questione di ordine pubblico viene legata a una specifica nazionalità o a una specifica etnia, come la chiamano, dalle parti della Cei, questa questione? Un tecnicismo?
Come sono avveduti, alla Sir.
Come sono intelligenti.
Come sono equidistanti, pacati.