lerner, la cozza intelligente

Voglio arrivare a Mara Carfagna (a cui a questo punto dedico un altro post, va’, mi voglio rovinare), ma per farlo comincio da Gad Lerner.
Sarà anche antipatico, ma è uno dei pochi osservatori della realtà che riescono a vedere la complessità delle cose, a restituirne un’idea sfaccettata, articolata.
Lerner ha scritto, oggi sulla Repubblica, un commento sul binomio (in)sicurezza-rom.

Va letto integralmente, e dà lo stesso effetto – garantisco – di una bottiglietta di acqua fresca e frizzante sorseggiata nella torrida calura di un appiccicoso solleone tropicale; ma voglio citarne ugualmente qualche frase.

«Chi si oppone» alla marea anti-rom «è fuori dal popolo. Più precisamente, appartiene alla casta dei privilegiati che ignorano il disagio delle periferie. Ti senti buono, superiore? Allora ospitali nel tuo attico!», scrive Lerner.

Eh già: quanti di noi vengono accusati di buonismo idiota? Di «distanza dal popolo»?

Io qui ho una mia idea: fino a quando fra il linguaggio pubblico, quello della politica e di quella che una volta si chiamava società civile, e il linguaggio delle relazioni private e personali c’era una differenza di registro, sussisteva traccia della consapevolezza che – come ha scritto recentemente Bocca – la democrazia è una forma di organizzazione socio-politica che esige un grande autocontrollo e sorveglianza su di sé, sui propri peggiori istinti. C’erano due registri, e tutti sapevano – senza che nessuno gliel’avesse esplicitamente detto – che alla qualità della convivenza civile occorreva mantenere in piedi la distinzione, perché ne potesse nascere – chissà – un circolo virtuoso.

Da quando il rutto, appunto, è stato sdoganato come strumento di espressione politica, abbiamo smesso di vergognarci dei nostri rutti.
Abbiamo pensato che non occorreva più farli in silenzio a casa nostra, cercando di non farci sentire nemmeno dai nostri familiari, e li abbiamo portati fuori casa, sempre più alti, più lunghi, più orgogliosi, più sonori; perché facessero da eco ai rutti degli altri, si riconoscessero nei rutti degli altri, e insieme a quelli costruissero una rumorosa comunità identitaria di uguali ruttanti.

Io arrivo a dire che nel chiuso di casa propria, nel privato dei propri discorsi domestici, chiunque di noi ha addirittura il diritto di essere perfino razzista.
Ma ciò che ciascuno di noi dovrebbe ben sapere è che quando cessa di essere un privato cittadino e assume il ruolo di pezzo di una società – e questo accade quando si pronuncia, appunto, un discorso pubblico: in un’assemblea di classe o in tv, non importa – assume una responsabilità enormemente maggiore (che qualcuno percepisce, sì, ma considerandola troppo spesso un’ubriacatura di potere).

Quando si assume questa responsabilità – quella dello svolgere un discorso pubblico – bisognerebbe avere almeno un’idea vaga di quale sia l’approdo a cui può condurre una nostra opinione: cosa più difficile nei casi di quelle opinioni non sorvegliate dalla nostra razionalità.

Per esempio: chi vuole cacciare i rom – semplifico – ha una vaga idea della società che vorrebbe?
Probabilmente vorrebbe tutti puliti, perfetti, niente reati (a parte, forse, quelli finanziari: ma la mia è pura cattiveria), niente scontri, niente dialettica sociale, inquinamento quanto se ne vuole, perché le macchine servono, e niente diversi. Mai, a meno che non si sforzino di diventare un po’ più simili a noi.
Questo, secondo me, è un mondo irreale e impossibile, e continuare a crederci può solo significare che c’è qualcuno che specula per scopi suoi su questo sogno di un’Arcadia irrealizzabile.

«Quando gli speaker dei telegiornali annunciano la nomina di “commissari per i rom”», scrive ancora Lerner, «sarebbe obbligatorio ricordare che simili denominazioni sono bandite nella democrazia italiana dal 1945. Il precetto biblico dell’immedesimazione dovrebbe suggerirci un esercizio: sostituire mentalmente, nei titoli di giornale, la parola “rom” con la parola “ebrei”, o “italiani”». Nessuno lo farà, temo.