il silenzio, l’urlo, l’ottimismo e il privilegio

Dalla sua parte, D’Avanzo ce l’ha eccome, qualche ragione.
Dice che non è ragionevole, sensato, ammissibile, obbligatorio, che si faccia tutti silenzio – o al più si strilli tutti, come se l’irreparabile fosse già avvenuto – di fronte a quella che per pura (e colpevole) rapidità viene denominata norma «salva-Silvio», e invece è in realtà molto di più, cioè è tutto quello che lui – D’Avanzo, dico – spiega sul suo pezzo di oggi.

Ha ragione.
Non è detto che si debba tacere, o strillare, come sulla scorta dell’argomento che ormai tutto è già successo e rimedio non c’è più.
Però.
Io so com’è – lo so perché c’ero, perché in tutti questi anni ci sono sempre stata, e perché le mie battaglie, se così posso dire, le ho sempre combattute, con passione e tenacia – vivere giorno per giorno, lentamente ma con dolorosa e costante consapevolezza, il progressivo impoverimento delle proprie facoltà di interferire con la realtà; la crescente diminuzione degli spazi possibili per «comunicarla», perfino. E col lavoro che faccio.

L’ho vissuta, io, la chiara evidenza del fatto che le sconfitte non sono mai l’effetto dell’ultima battaglia, ma sono casomai l’epilogo di piccoli e miseri fatti ciascuno concatenato all’altro (e magari, quando tu dicevi che tra quei fatti c’era una relazione, e che il tuo dovere di giornalista era proprio esattamente e precisamente quello – capire e comunicare quella connessione – ti ridevano dietro e ti dicevano che eri dietrologo, complottista, radicale, massimalista; sostanzialmente un folle, insomma; e con un temperamento teatrale e compiaciuto).

L’ho visto, cos’era credere nel proprio lavoro e schiantarsi (metaforicamente; solo metaforicamente, per fortuna) a duecento all’ora sul muro (di gomma; solo di gomma, per fortuna) della silenziosa tracotanza di chi sapeva in anticipo che avrebbe vinto.
Sul muro di gomma di chi sapeva benissimo che qualunque cosa tu volessi o potessi fare, nella tua professione, era esclusivamente ciò che gli altri avevano deciso, perché il tuo lavoro in sé non esisteva più se non per quei ridicoli e minuscoli recinti di pervietà che potevano aiutare loro, i chiamiamoli vincitori, a qualificarsi pluralisti grazie a te.

C’ero, quando i servi sciocchi hanno cominciato a pensare che senza di loro il mondo sarebbe crollato, e allora, per guadagnarsi la stima dei loro superiori, hanno cominciato ad accettare qualunque cosa, qualunque compito, qualunque forzatura della realtà, in nome di una famiglia da mantenere o – peggio, molto peggio – della sottovalutazione delle proprie responsabilità civili.

Immagino che tutto questo l’avrà vissuto anche D’Avanzo che ora mi spiega che non devo tacere, ma neanche gridare, ed eventualmente cercare il modo per agire.

Però quello che io non so, non so davvero, è cosa sia stato, cosa possa essere stato, vivere queste stesse cose che ho vissuto io da una posizione di privilegio superiore alla mia.
Posso solo immaginare che quella posizione dia più forza e più ottimismo.
Io, invece, l’ottimismo l’ho perso del tutto.

E francamente, se dovessi scegliere compari con cui cominciare una battaglia – se è una battaglia ciò a cui con garbo invita D’Avanzo (ma a me sembra che inviti a cose più educate e intellettuali di una battaglia) – non saprei davvero da dove cominciare.
Probabilmente, di compari non ne troverei più di otto o nove.
Non mi sembra abbastanza per essere ottimista.
Però può darsi che mi sbagli.

p.s. Lo so: che pizza, sempre queste notizie italiane. Lo so che è un quadro asfittico. Ma le cose che ho da dire sono queste…