la macchina da guerra dell’ideologia efficientista

C’è un articolo, sul Corriere.it di oggi, che fa riflettere.
Perlomeno: fa riflettere me – forse perché è un tema che sento – sull’importanza della scelta delle parole.

L’articolo comincia così: «La guerra ai “fannulloni”, agli statali “lavativi” e protetti da mille privilegi non la farà solo con le parole ma con i numeri».
Il guerriero in questione è il ministro della Funzione pubblica Renato Brunetta.
A prescindere dai contenuti – sui quali si può concordare oppure no, e in questo momento lascio da parte la questione – le parole scelte fanno proprio impressione, perché creano immediatamente il contesto di riferimento, dicono subito da che parte si sta, chiariscono già alla prima occhiata quale sia la posizione.

Le parole “fannulloni” e “lavativi” sono fra virgolette.
Con questo, io che leggo ricevo il messaggio che si tratta di termini che chi scrive adotta con qualche distanza critica, forse perché non del tutto convinto che utilizzarli in quella sede sia completamente appropriato.
Le parole e le locuzioni veramente importanti di quella frase, però, non sono fra virgolette, e questo mi dice che chi le ha usate è ragionevolmente sicuro che il loro utilizzo sia pienamente giustificato e corretto. Che si tratti, insomma, delle parole giuste collocate al posto giusto. E inequivoche.

Le parole non fra virgolette sono guerra, protetti da mille privilegi, numeri e parole.
Chi scrive, ne posso dunque dedurre, è sicuro che è giusto fare la guerra (e attenzione: con la precisione e la verità intrinseca dei numeri, mica solo con l’ambiguità e la faciloneria delle parole) a qualcuno perché è protetto da mille privilegi.
Non dieci privilegi; non cento.
Mille. Né più né meno di mille.
E’ evidente che si tratta di un uso figurato.
Però – guarda che caso – qui le virgolette non ci sono.

Ci troviamo evidentemente immersi fin da subito nel territorio della contrapposizione retorica fra “pubblico”, sentina di tutti i mali e pozzo nero di tutti gli sprechi, e “privato”, oasi di produttività e luogo mitologico di egualitarismi paradisiaci.

Cioè, attenzione all’inversione: il “privato” è egualitario – tutti devono lavorare, sennò saranno espulsi e se ne andranno a casa (il che è peraltro completamente falso, agli occhi di chiunque abbia avuto una frequentazione anche breve dell’asserita Arcadia del privato) – e il “pubblico” è anti-egualitario, protettivo del privilegio.

Chiarito il contesto di riferimento, quanto al contenuto voglio dire che se davvero «negli ultimi otto anni, dal 2000 al 2007 compresi, le retribuzioni di fatto dei dipendenti pubblici sono aumentate del 35%, il doppio dell’inflazione che si è fermata al 17%, e molto più dei lavoratori del settore privato che hanno messo a segno una crescita del 20%» – e anche se è vero che «la fonte è Istat» (segnalo l’assenza dell’articolo, secondo il costume moderno di personalizzare ciò che va di moda chiamare “aziende” anche quando di aziende non si tratta; e in questo caso la citazione serve a validare l’incontrovertibilità dell’affermazione) – beh, se anche tutto questo fosse in se stesso completamente vero, niente mi viene però detto sul fatto che – magari – nel decennio precedente a questi otto anni gli stipendi pubblici potevano anche essere rimasti, per esempio, ben al di sotto dell’inflazione, e che gli aumenti recenti si sono – chissà – resi necessari per colmare il dislivello.

Non sto dicendo che è veramente così, ma che siccome è possibile che sia così, io lettore dovrei essere messo nella condizione di non dubitare, e di capire, al contrario, che la notizia non è intenzionalmente monca di un pezzo così come posso accademicamente ipotizzare io, ma è esattamente come scrive il giornale.

In caso contrario – se manca, cioè, quest’attenzione al senso critico del lettore – io posso sempre pensare che l’informazione che mi viene data possa essere viziata da un ipotetico pregiudizio ideologico (che d’altra parte la scelta di alcune parole invece che di altre mi segnala già con sufficiente chiarezza indiziaria).

Infine. Alcune domande.
Facciamo che Brunetta riesca a vincere la sua “guerra” contro “fannulloni” e “lavativi”.
E facciamo che lo Stato arrivi a costare molto meno di prima.
Bene.
Cosa facciamo di “fannulloni” e lavativi”?
Li mandiamo in prigione?
Cosa facciamo delle loro famiglie?
Chi le mantiene?
Lo Stato? L’Inps?
O le facciamo andare a vivere nelle favelas, e che si arrangino?

Insomma: qualcuno dovrà pure farsi carico di chi non può/non vuole lavorare, anche se li mandiamo in campi di concentramento. I quali campi, per inciso, costano pure loro.
Può non piacerci per niente, ma anche procedendo in termini puramente economicisti, questi sono costi non sopprimibili in alcun modo, perché cacciati dalla porta rientrano dalla finestra, fosse anche solo per il fatto che – ipotesi – per “rimotivare” e riqualificare un cosiddetto “fannullone” qualcuno potrebbe pensare che un corso di formazione (che ha un suo costo) possa avere un suo perché.

Rimango convinta che lo Stato ha i suoi costi perché è uno Stato e deve accollarsi – entro certi limiti, è ovvio – anche i costi delle inefficienze.
A meno che, naturalmente, ciò a cui Brunetta e molti molti altri stanno pensando non sia una cosa simile a una soluzione finale, a un omicidio di massa.
In questo caso, le pallottole che Bossi dice di avere a suo tempo comperato a trecento lire andranno benissimo, e sarebbero – oltre a quello della sepoltura – l’unico costo.

Resta solo da stabilire cosa fare dei figli dei fannulloni, rimasti a quel punto senza sostentamento.
Ma forse, dopo una mano di conti, possono essere ammazzati anche loro.

La logica economicista, la deriva binaria e l’idea della dicotomia on-off come dialettica esclusiva della dinamica sociale, se portate alle loro estreme conseguenze conducono qui – all’omicidio motivato da ragioni di risparmio – e non altrove.
Si può decidere che va bene e che ci piace, ma secondo me è importante saperlo.

Chi dichiara guerra ai fannulloni sta facendo un’operazione solo ideologica.

P.s. L’articolo dice alla fine che secondo i tecnici del ministero, “la crescita degli stipendi è stata così generosa nel settore pubblico” per colpa (colpa, eh) della “contrattazione decentrata”.
Viene detto che “i dati significano questo: che nel settore privato la contrattazione decentrata (cioè territoriale o aziendale e quindi” – attenzione al “quindi” – “legata alla produttività) copre meno del 30% dei dipendenti, nel settore pubblico è invece esteso per legge a tutti i dipendenti”.
Cioè: la contrattazione decentrata è per definizione legata alla produttività, almeno nel privato (ma questo è realmente sempre vero?), ed è giusto che “copra” meno del 30 per cento dei lavoratori. L’ingiustizia, insomma, sta nel fatto che la contrattazione decentrata riguardi tutti.