let it be, o w il cuore

Niente intertitoli gialli, oggi, anche se il post è un po’ lungo.
Oggi mi va di mettere a prova la pazienza di chi legge.
Se arriva fino in fondo, bene. Sennò, amen.

Io non so perché – anzi: forse lo so anche – ma questo dibattito sulla competizione fra nord e sud nella scuola mi fa stare male, come d’altra parte qualunque dibattito sulla competizione.
Sono costretta a dichiarare la mia totale inadeguatezza a reggere qualunque preteso ragionamento basato sul criterio della competizione (o forse, a questo punto, qualunque dibattito tout court).
Sono costretta a denunciare la mia totale inettitudine e il mio più profondo disinteresse a ragionare in termini di graduatorie.
Sono costretta a dire che – sì – per antica consuetudine sono condotta a interessarmi di quel che accade nella politica, ma per attitudine recente sono portata a restringere sempre di più il perimetro delle persone e delle cose che voglio o semplicemente accetto intorno a me.

Sono costretta a dichiarare che, alla mia età, io ho scoperto – e purtroppo non mi è di gran rilievo chi sia o non sia d’accordo – che tutto quello che mi interessa è avere relazioni lineari e gentili con alcune poche persone, quelle che per quel che mi riguarda se lo meritano, e prese una alla volta, o al massimo a piccoli gruppi le cui dinamiche siano il più possibile benevole e non competitive.

Sono costretta a dire che sento crescere giorno dopo giorno la mia dolorosa estraneità nei confronti di ogni tipo di discorso pubblico, ovunque e comunque io lo veda o lo senta svilupparsi; che perfino il lessico, e non solo gli argomenti, mi crea una destabilizzazione interiore. E perfino la sintassi, a volte, mi rende chiaro quanto lontana da tutto questo io sia stata sparata dalla mia vita e dalla mia storia (intese come complemento d’agente e non come moto da luogo).

Sono costretta ad ammettere che vedere la tranquillità con la quale vengono accettati termini di discussione ideologici e lontani dalla realtà mi fa stare male.
Che l’illusione – politica, scientifica o sociologica – di poter controllare la realtà attraverso la sua riduzione a schemi quantitativi, oggettivi, parametrati e confrontabili mi sembra l’espressione di un «baco» che nel software umano origina un’incontrollabile compulsione al controllo, appunto, e il corrispettivo bisogno di sentirsi al timone della vita e dell’universo, cominciando dalle cose minuscole e finendo alle cose enormi.
Il mondo è infinitamente più complesso di qualunque nostra immaginazione.
Non riusciremo mai a spiegarlo; non riusciremo mai a controllarlo; non riusciremo mai a misurarlo; non riusciremo mai a rinchiuderlo in un contenitore.

Io non penso – come invece fa la stragrande maggioranza dell’umanità, e sono assolutamente disposta a credere di aver torto io, ma questo non significa che per me cambi qualcosa – che si possano quantificare la felicità, il benessere, la produttività, il merito, le capacità, le attitudini, le probabilità, i rischi, le opportunità, i sentimenti, lo sviluppo, e qualunque altra cosa che si voglia ritenere sostanzialmente misurabile (e so di aver appena scritto un ossimoro).

Io riesco a considerare misurabili (e utilmente misurabili) solo cose su cui esiste una convenzione «minimale», non saprei come meglio dire. Che so: i soldi, il tempo, le dimensioni fisiche degli oggetti.
Ma già a suo tempo, al liceo, pur non capendoci assolutamente niente, ero sicura che nelle geometrie non euclidee a n dimensioni ci fosse più verità che negli assi cartesiani.

Non che ne vada fiera; tutt’altro. Ma considerando il lavoro che faccio, questa nausea monumentale e quasi fisica che provo per il registro interpretativo della quantificazione e della semplicità apparente mi sembra – questo lo devo dire – infinitamente più comprensibile e spiegabile.

Non mi fa nessun piacere avere la consapevolezza che mentre la grandissima parte dei miei coetanei – gente matura, intendo; non ragazzini, che peraltro mi sembrano ovviamente molto più «idonei» di qualunque altra età a stare in questa temperie – ha avuto la capacità di venire a patti con quel che vede, se non addirittura di accettarlo e farlo proprio, io posso solo prendere atto che quel che vedo non riesce a «risuonarmi» dentro, e – stridendo con i miei «suoni» esistenziali (chiamiamoli così, va’) – produce invece continue insopportabili cacofonie.

Però è così.
L’unico modo che riesco a vedere per stare decentemente dentro a questa presa d’atto è darmi il diritto di starci e vedere dove tutto questo mi conduce.

Ammazza che argomento triste.