la polizia è razzista (a londra, però)

Il sindaco di Londra ha deciso di avviare un’inchiesta all’interno della Metropolitan Police-New Scotland Yard dopo che la Metropolitan Police Black Association ha denunciato l’esistenza di «un ambiente ostile e razzista», invitando le persone di colore a non arruolarsi nel corpo.

La notizia l’ho letta sul Times e sul Guardian.
Pochi giorni fa, il capo di Scotland Yard Ian Blair era stato forzato alle dimissioni dal sindaco Boris Johnson dopo l’emersione di alcuni episodi, come la sospensione di Tarique Ghaffur, un assistente commissario che aveva denunciato il corpo – e Blair – come razzisti.

La circostanza mi muove ad alcune considerazioni.

La considerazione più immediata e generica è che se qualcuno, in Gran Bretagna, avanza denunce di razzismo, le autorità politiche – è il caso di Johnson – si muovono per verificare le denunce, e non per fare intimidazione contro chi ha denunciato il razzismo, come invece ha fatto un nostro ministro.
Se qualcuno volesse eccepire (ma spererei tanto di no) che a Londra sono i poliziotti stessi a denunciare (e dunque – direbbe lo statista Gasparri – persone molto più attendibili di semplici cittadini neri), potrei solo ricordare i fatti del G8, e il fatto che nemmeno le parole del vicequestore Fournier, quello che parlò di «macelleria messicana», bastarono a ottenere una commissione d’inchiesta su quei fatti.

Ma la cosa che più mi impressiona, alla fine, è un’altra. Alcuni dei poliziotti neri londinesi – e un’inchiesta televisiva manderà questa settimana in onda le loro testimonianze – lamentano la lentezza delle loro progressioni di carriera, o il fatto che per accedere a una promozione devono essere sovraqualificati. Un altro agente dice che nel suo armadietto ha trovato graffiti razzisti e simboli del Ku Klux Klan.
Bene.
Tragicamente, niente e nessuno – mi viene da pensare – potrà mai «scientificamente» dimostrare che il razzismo esiste.

Le scappatoie sono mille, e le abbiamo già sentite tutte.
«Sono solo degli imbecilli».
«Sono ragazzate».
«Io non sono razzista, però…».
«Non conoscono nemmeno il senso della svastica: come possono essere nazisti?».
«Quella donna ha precedenti penali».
«Il ragazzo ha opposto resistenza all’arresto».
«Quella prostituta era stanca, stava solo riposando a terra».
«Non ce l’abbiamo coi kebab: è solo che non si può sporcare per strada».
«Non ce l’abbiamo coi poveri: è solo che sono controllati dal racket».
«Non ce l’abbiamo con chi è senza casa: abbiamo fatto le panchine che impediscono alle persone di sdraiarsi solo per una questione di decoro».
«Non ce l’abbiamo con chi lava i vetri: è che dà fastidio agli automobilisti».
«Non ce l’abbiamo coi musulmani: è che la loro moschea è in uno stabile che non è in regola».
«Non ce l’abbiamo con i rom: prendiamo le impronte per il loro bene».
«Non ce l’abbiamo con le cinesi: è che massaggiare in spiaggia può far venire malattie».

«Non ce l’avevano con gli ebrei, e i forni crematori non sono mai esistiti».

E mentre le seconde linee si dedicano a politiche razziste con le quali impegnare l’immaginario collettivo di questo Paese, la prima linea smantella lo Stato, la Costituzione, l’ordinamento.

ps: leggo qui che Cameron, il leader conservatore britannico, non andrebbe a vivere a Downing Street, se vincesse, perché quella sarebbe una casa piena di barriere architettoniche per il figlio handicappato.
Oh, ma che cosa moderna e democratica.
Poi vado a leggere meglio, e vedo che l’uomo ha speso 1,4 milioni di euro per un appartamento da sistemare per il figlio a Notting Hill.
A casa mia abbiamo sempre fatto una fatica dannata per lavare mio fratello in vasca, per sollevarlo dal letto, per metterlo in poltrona, per farlo salire in macchina…
Okay: non sono David Cameron, e dunque che ca*** voglio.
A parte che mi basterebbe qualche diritto in più – tipo quello all’assistenza domiciliare invece che l’obbligo di collocare un fratello (o un figlio) handicappato nelle discariche di umanità conosciute sotto il nome di istituti – vorrei solo che tutti quelli che mi parlano della necessità di una «salvezza collettiva» e non individuale si facessero un po’ di domande.
Prima di parlare, dico.
Ma su questa cosa prima o poi tornerò.