mi dispiace così tanto che lei torni qui da dublino

Ho un’amica che vive a Dublino.
Non dico il suo nome perché non so se a lei fa piacere.
È arrivata in Irlanda quando la cosiddetta «tigre celtica» stava già ruggendo a volume un po’ più basso di quello a cui aveva abituato un’incredula Europa negli anni Novanta.
La nostra è una specie di amicizia strana, che si è nutrita di molte mail e qualche telefonata, nelle quali ci siamo raccontate un sacco di cose pur non avendo precedentemente condiviso pezzi di vita.

Ci siamo conosciute perché stavo facendo un lavoro – per ora sospeso, a causa della tristissima carenza (spero temporanea) di finanziamenti – sull’«emigrazione» italiana in Irlanda; la prima volta che ci siamo incontrate ci siamo bevute qualcosa al Cafè en Seine, un bel locale su Dawson Street, a un passo da St. Stephen’s Green.
Ha detto «chocolate», mi ricordo, con un accento che – ho pensato in quel momento – io non riuscirò mai ad avere così perfetto. Fantastico.


Il lavoro in Irlanda le piaceva. Mi aveva detto che non c’era paragone con le umiliazioni che aveva ricevuto quando lavorava in Italia; che nonostante l’attitudine irlandese a lavorare un tanto al chilo, quella soluzione per lei era buona.
Credo che fosse sovraqualificata per l’impiego che aveva, ma non mi sembrava che a lei questa cosa importasse molto.
Mi raccontava che a Dublino occorreva pochissimo tempo per trovar lavoro, che la paga era immancabilmente superiore a quella italiana, e che il sabato e la domenica «sacralmente» liberi erano una meraviglia.
Ha cambiato da poco casa, e stava a Dublin 4.
Un bel posto, e una bella casa.

Poi è arrivata la crisi; quella dei mutui, per capirci.
E quando la società per cui lavora le ha comunicato il ridimensionamento delle sue funzioni, lei ha cercato altri lavori ma non è saltato fuori niente. Niente che valesse la pena, perlomeno.

E ora tornerà in Italia.
Io ho commentato pochissimo, con lei, questa scelta. Le ho chiesto se ne era proprio sicura; e lei ha spiegato che sentiva di non avere alternativa. Io ci ho sentito quel senso di gioia che accompagna sempre le scelte di cambiamento, le rivoluzioni della vita; dunque, ho potuto solo tacere.

L’altro giorno camminavo per la città, e mi sono resa conto di quanto possa essere importante sentirsi circondati da persone che parlano la tua lingua, anche se li percepisci confusamente ostili e terribilmente diversi da te; da esseri umani per i quali – faccio per dire – la parola «ciliegia» significa una e una sola cosa, uguale per tutti.
Io non so se anche questa sia una delle cose che hanno finito per mancarle. Se il clima piovoso sia stato pesante da sopportare. Se la lontananza dagli affetti sia stata intollerabile, alla fine. Se il bisogno di stare accanto alle persone che si amano diventa più forte del bisogno di essere autonomi e di sentirsi proiettati in una dimensione di sviluppo individuale e personale.

Però so che il suo ritorno in Italia mi dispiace da impazzire.
È sbagliato, lo capisco, guardare le storie degli altri attraverso le lenti deformanti delle proprie aspettative e della propria storia. Ma mi dispiace così tanto che lei torni qui.
Ho paura che se ne possa pentire, un giorno.

Lo so, lo so: io non c’entro. Non posso permettermi di pesare con questi giudizi.
È che questo Paese lo sento morire giorno dopo giorno; è così difficile da spiegare.
Lo sento impoverirsi di speranze, diventare sempre più aperto a quelli incarogniti, rabbiosi, cattivi contro gli «altri»; sempre più schiavo delle semplificazioni dei bastardi, degli arroganti, degli incapaci, degli stolti.
Sempre più vicino al baratro. Sempre più incantato da pifferai assurdi.
Leggo sul Corriere i commenti alla strage di Gaza, per esempio: molti dicono «eh, quei bastardi terroristi di palestinesi se la son voluta», come se ci fosse proporzione fra i razzi Katiuscia e i raid che uccidono quattrocento persone, indipendentemente da quale sia la parte dalla quale si voglia stare.
Leggo che si glorifica Brunetta.
Nelle lettere al giornale dove lavoro, leggo che la Ru486 è considerata da un lettore un’arma di distruzione di massa.

Non so.
È difficile da argomentare.
Ma con tutto il coraggio che c’è voluto per andarsene di qui, come si può decidere di tornare proprio ora, magari pensando che il proprio destino personale possa conoscere fortune capaci di neutralizzare ogni possibile rovescio sociale o politico?

È per questo che non sono riuscita a scriverle; che non le ho nemmeno fatto gli auguri di Natale.
Dovrei chiederle scusa.
Ma mi dispiace così tanto che lei torni.
Così tanto.