un commesso al sex shop

Okay. Lo dico.
L’altro giorno, con la mia compagna di scuola tedesca, sono andata in un negozio molto grande che si chiama Ann Summers.
E’ un sex shop, ma in effetti – non ho esperienza nel ramo, però – somiglia a una specie di Lidl della biancheria merletto-soft-leopardata-hard (su tutta la roba esposta c’è scritto “tenere lontano dal fuoco”, il che significa che cotone egiziano non è…) e dell’ammennicolistica seria e faceta (tipo una poltrona gonfiabile rosa con – come potrei dire – propaggine verticale incorporata ma staccabile per evitare le figuracce nelle cene formali, suppongo; o dei cioccolatini forgiati in forme sicuramente immaginabili).

Era come andare in uno di quei negozi in cui vendono costumi di carnevale.
Stoffe improbabili, cuciture assurde.
Un unico obiettivo: muovere un’idea di sé, rendersi personaggio ai propri stessi occhi. Tipo la maliarda che ti fa secco, oppure la bambina innocentina che se però la lasci fare ti stende, o la perfida torturatrice, la regina di Biancaneve, la cameriera perversa, la perfida suora…

Il negozio era pieno di donne, uomini e bambini.
Giuro.
Bambini.
D’altra parte, una madre di cinque figli non è che li possa lasciare tanto in giro: se li dovrà pure portar dietro.
C’erano coppie attempate. Serissime e per niente imbarazzate.
Ragazzine di neanche vent’anni. Serissime e per niente imbarazzate (la cattolicissima Irlanda, eh…).
C’erano ciccione smisurate, anche.
Ce n’era una che ha indossato contemporaneamente tutte le cose più trash e fetish (ma anche virginal-maliziosette) che un essere umano possa immaginare, e poi è uscita per un giretto minuscolo fuori dal camerino di prova.
Cercava le amiche da cui avere un giudizio, ma ha trovato solo me.
Coi suoi capellini rossi riuniti in un codino lungo due centimetri, e con la sua ricrescita grigia mi faceva una tenerezza tale che avrei voluto dirle “hai mai pensato di puntare sull’intelligenza?”, ma siccome so che – al di là delle mie intenzioni affettuose – rimane una battuta maschilista di merda, mi son fatta gli affari miei e ho taciuto.
Cosa che in inglese mi viene più naturale che in italiano.

So di perdere tutta la mia residua credibilità se dico che volevo andare in questo negozio anche (ho detto anche; non solo) perché una volta ho letto sull’Irish Independent che la polizia era dovuta intervenire per disperdere le ragazze che volevano infiltrarsi in un party Ann Summers e per la strada, sotto la casa dove era in corso il party, stavano facendo un casino infernale (questa benedetta ditta fa le dimostrazioni a casa come una volta si faceva con la Tupperware o la Stanhome).

Comunque.
Al centro del negozio c’è un settore circolare in cui sono esposti tutti i tipi di vibratori – motorizzati e non – in vendita nel negozio.
Uno li può prendere, li può mettere in funzione premendo serie impressionanti di pulsantini, e rendersi conto così delle loro caratteristiche.
Mentre guardavo uno di questi – con comprensibile ma inconsapevole concentrazione, immagino – sento una voce maschile a pochi centimentri da me: “How may I help you?”.

Ca***.
Come mi può essere d’aiuto?
Mi giro, e vedo un ragazzo sui venticinque. Non di più.
Capello eretto (lo so, sono perfettamente consapevole del doppio senso, ma francamente non so come diversamente definire i capelli tenuti in piedi dal gel), sorriso aperto, portamento professionale.
E’ un fot**** commesso!
No.
No!
No no no no!
Non possono mettere un commesso maschio ai vibratori!
A dire “Sì, questo modello ha queste caratteristiche e funziona benissimo”.
Non può trattare con le avventrici femmine!
Okay: capisco che così non scatta la competizione e nessuna avventrice si sente un cesso.

Secondo me un commesso di Ann Summers è il personaggio perfetto di un romanzo.
Perfetto.