mia cava, la cvisi dei giovnali è gvave

e_che_sara_maiNon ne posso più di sentire gente che strologa sul giornalismo; sui giornali di carta che muoiono; no, loro sono autorevoli; eh, ma la gente non li legge perché questo e perché quello; ma su Internet nessuno può controllare la qualità; e comunque la stampa è garanzia di democrazia (che detto da quelli che la strangolano è indice di acuto senso dell’umorismo); e in ogni caso in questo Paese si legge troppo poco; e i giovani non comprano i giornali; e via di seguito.

Non sopporto le analisi tranchant che, apparentemente mooolto sofisticate ma in realtà tragicamente poco argomentate, fanno anche il conto degli anni che restano da vivere ai giornali di carta.

Non sopporto le stupide retoriche del cosiddetto citizen journalism, come se esso avesse una qualche sua parentela con il giornalismo, e non – semplicemente – con un’idea più vasta di socialità.

Non digerisco l’idea di chi mi vuol far credere che i giornali sono in crisi perché:
a) c’è la crisi globale;
b) farli costa troppo;
c) le notizie sono scarse.
Secondo me – ma è solamente un’opinione – i giornali stanno chiudendo e ristrutturando perché non riescono a svolgere il mestiere per il quale un editore (chiamiamolo impropriamente così) li apre: perché non riescono più a controllare il territorio.

Perché esistono nuove «agenzie» capaci di fare meglio dei giornali da addetti stampa dei poteri e dei potenti emergenti o emersi il cui insediamento o la cui perpetuazione interessano agli editori (chiamiamoli impropriamente così).

Ciò premesso, dovrebbe risultate evidente perché questa cosa del quotidiano in classe che ogni anno sembra darci le risposte definitive su democrazia, stampa, carta, giornali, diffusione, politica, internet, e pillole di universo mondo io non l’ho mai capita veramente.
Perché è nata. Come. Da chi. Che storia professionale ha l’organizzatore.

Non sto pensando a niente di opaco, sinistro oppure occulto; e ammetto (facendo ammenda) che mi sono impegnata effettivamente troppo poco per trovar risposte a queste domande.

Ma ecco che vedo Gad Lerner che se ne fa di analoghe, e fatica anch’egli a darsi una risposta.
Io solo a sentire il nome «la Bagnaia» vengo colta da un rictus che mi blocca l’espressione del volto.
È una specie di nome-carezza che volteggia sulle nostre teste di giornalisti non iniziati al rito, leggiadra, sacrale e raffinata come una specie di spirito santo al quale si deve una devozione che non c’è bisogno di spiegare.

Sì.
Sono una peste.