avevo bisogno di uccidere

piove_e_piove

Ho letto su Collettivomensa l’intervento – questo – che Antonio Moresco ha fatto al festival fiorentino di letteratura Ultra.
Mi è piaciuto molto. Ha energia, verità, intensità, autenticità (non che non lo sapessi, eh).

d’istinto

D’istinto, se leggo cose come «se nell’underground ci stai dentro come uno sfigato, sei fottuto. Io anche quando ero nella merda più assoluta non mi sono mai sentito uno sfigato. Anche se secondo tutti i parametri ero un deficiente. Per cui il fatto che uno occupa un posto, molto basso, non vuol dire che sia basso lui, né che lo sarà sempre, cazzo», o «se uno vuole uno status, vuole essere riconosciuto come figura pubblica allora uno pubblica quello che gli chiede l’editore. Entra in quel circolo commerciale e sta bene. Il problema lì è di autostima. Occorre semplicemente credere in se stessi e nelle proprie capacità», io mi esalto e dico anch’io «cazzo, questo è parlare!».

il «gialletto» e la tv

Se leggo cose come «non ho bisogno di prendere» l’altro «per il culo mettendomi a scrivere un gialletto così lui mi legge e io vado a finire sui giornali con la mia faccia di cazzo. E tutti a dire ‘guarda questa bella faccia di cazzo’. No, non mi interessa», tendo a irrigidirmi per la prima parte della frase – dev’essere perché ho pubblicato un noir o magari un «gialletto», chissà – ma mi piace molto la seconda parte della frase, perché condivido il fastidio per i «personaggi» che presentano «prodotti» (l’ho detto quelle cento volte, vero?).

restaurazione

Se leggo cose come «ad esempio l’esplosione del giallo, della letteratura di intrattenimento è una forte restaurazione in atto nella letteratura. Cioè non si vuole che nella letteratura possa esplodere qualcosa che vada al di fuori delle logiche di fruibilità e commerciabilità», comincio a irrigidirmi un po’ di più, e credo che sia sempre per la ragione che ho pubblicato un noir che magari temo possa essere contato fra gli esemplari di «letteratura di intrattenimento» che nasce da una logica di «restaurazione».

«gialletto del cazzo»

Se poi, infine, leggo cose come «io non è che mi sono messo a pubblicare un gialletto del cazzo», la mia rigidità diventa in tutto paragonabile a quella di uno che è stato toccato dalla Medusa.
E comincio a farmi domande.

io mi interrogo

Cos’è stato, per me, scrivere un giallo, o meglio un noir?
Perché ho scritto un noir e non un’altra cosa?
Perchè l’altra cosa che pure avevo scritto prima – qualcosa di simile a ciò che si potrebbe definire «memoir», ma insomma non lo è del tutto – è rimasta nel cassetto e il giallo-noir è stato spedito agli editori?
Sono – io – complice inconsapevole della restaurazione?

il potere dei vermi

Io ho scritto un noir perché avevo bisogno di uccidere.
Per finta, ovviamente.
E me ne sono accorta dopo.
Avevo bisogno di raccontare i motivi per cui il potere uccide e può/deve essere ucciso anche quando non si chiama Spectre; anche quando – e lo è quasi sempre, poi – è misero, banale, pavido, vermiforme, ordinario, volgare e dozzinale.
E non è uccidendo che si esercita la massima forma possibile di potere sugli altri?

rabbia

Avevo bisogno di vendicare mio fratello, credo.
Di uccidere con l’inchiostro gli enormi mostruosi e ordinari schiacciasassi che – loro sì partecipi del clima di restaurazione, individui indifferenziati e agglutinati, confitti e nascosti nel ruolo che ricoprono nel lurido ingranaggio di cui volenti o no condividono i fini – hanno massacrato la vita a lui, ai miei, a me e a tante tante tante altre persone che con l’enorme peso dell’organizzazione/istituzione hanno dovuto avere per forza a che fare in ragione di una loro situazione- diciamo così – di sfiga.
Dice: ammazza che rabbia.
Sì.
Ammazza che rabbia.
Ma mi sembra ben digerita, e legittima

un «noir»

Ho scritto un noir che non posso riconoscere come un gialletto del cazzo perché dentro c’è un frullato di cose difficili, come le relazioni di potere e di ambiguità in un mondo che conosco bene perché ci lavoro, ma molti altri non immaginano così come in realtà esso è.

(in)«trattenere»

Non credo di avere scritto letteratura di intrattenimento se non nella misura in cui mi interessava che chi cominciava a leggere arrivasse fino alla fine della storia; in questo senso, dunque, avevo ogni intenzione di «intrattenerlo».
Ma francamente, per quanto io pensi che la letteratura di evasione abbia un suo profondo e serio perché, non credo che leggendo il mio libro uno riesca ad evadere in modo diverso da quello che gli è consentito di fare per il fatto che segue una trama.

un valore civile

Perché la storia non è «Via col vento» né Moccia, né un film dei Vanzina, né – naturalmente – la Recherche o Anna Karenina o Calvino o Hemingway o chissà che; e – ciliegina sulla torta – ha pure la sfiga di non essere neanche un gialletto così, insomma.
È una storia che ho inventato io e ha un suo valore civile che io rivendico fino in fondo.

l’omicidio/levatrice

Ho raccontato una storia che dice delle cose che hanno una loro ragion d’essere più profonda se sono messe in relazione a un omicidio. Punto.

la decantazione

Perché non ho mandato agli editori il «memoir», allora, anche se l’avevo scritto prima?
In primo luogo, a differenza di «Due colonne taglio basso» non era un testo che stava in piedi da solo.
In secondo luogo, perché ero confusamente consapevole di una cosa: che se parli di cose e di persone che ti riguardano, che hai amato e ti hanno amato, il racconto delle cose deve trovare una sua decantazione, una sua indulgenza intrinseca.
Mia nonna avrebbe detto che deve essere «invermecato» di indulgenza.

un masso

Quel testo scaricava un masso enorme – il racconto della storia che conteneva – sulle spalle di chi lo leggeva: era il peso che io volevo togliere dalle mie spalle.
Altro che sassolini dalle scarpe.
Per stare in piedi, quel testo aveva bisogno delle spalle degli altri.
Era come quando si dice a un fidanzato «ehi, ti ho tradito, ma te ne parlo perché so di doverti almeno la sincerità».
Era sgravarsi le spalle e dare il peso ad altri.

di chi sono le vite?

E poi. C’era e c’è una cosa che mi tortura. Le vite di quelli che ho incontrato di chi sono?
Sono mie?
Posso «usarle», quando le identità dei loro possessori sono riconoscibili?
E se sì, fino a che punto ho il diritto di cristallizzarli in personaggi?

l’indulgenza

Non sono domande provocatorie.
Sono domande a cui non ho trovato la mia risposta, ma sento che la sto cercando, procedendo nella direzione dell’indulgenza verso le persone vere che hanno occupato e occupano il mio cuore.

l’ultima parola…

Scrivendo di loro, io mi tengo il diritto all’ultima parola.
È un diritto inevitabile, credo. Ma sento che la mia ultima parola con loro dev’essere il più possibile indulgente, aperta e non tranchant.
Come se potessi consentire un diritto di replica virtuale.
O anche: come se stessi scrivendo un pezzo di giudiziaria (non per l’argomento o il tenore, ovviamente) nel quale è necessario rispettare contemporaneamente la realtà fattuale e il modo in cui io riesco a percepirla, ma anche la dignità profonda e la complessità di coloro che, uomini e donne, sono entrati nella storia processuale.

… e il diritto di replica

Penso che le cose abbiano molti modi di esser dette, e anche molti modi di essere pensate.
E si possono dire per accogliere oppure per respingere.
In quel testo «memoir» c’erano troppe parole per respingere, e nessun diritto di replica per alcuni tra quelli che mi avevano amato.
È questo ciò su cui sapevo di dover lavorare.

persone, e non personaggi

Perché delle due l’una, sempre: in un libro o c’è un soffio di vita, un battito di cuore; oppure no.
Il buonismo non c’entra un cazzo.
C’entra che le persone non possono e non devono, secondo me, diventare personaggi.
Non nella vita, ovvio; ma nemmeno dentro i libri.

Per me è questo che fa la differenza.