corrispondenza sul post con la foto di francesco

schiuma_di_movimento_in_mareHo ricevuto questa lettera.

Cara Federica,
ho visto e letto il tuo pezzo passando da Vibrisse e poi al tuo blog.
Dico «visto», perché mi ha colpito molto la foto. Tu e tuo fratello vi assomigliate molto.
Ho lavorato quattro anni in un centro disabili con un direttore molto bravo: Mario Paolini (fratello di Marco), pedagogista con buone idee e passioni. Ho avuto molto a che fare con tetraplegici (definiti in una scala di gravità della patologia, «gravissimi», bisognosi cioè di assistenza pressoché totale); dico questo in quanto, sempre dalla foto vista, mi pare che tuo fratello sia tetraplegico (gravissimo?).

Quanto letto, mi ha colpito molto di più.
Nonostante la mia pratica, benché consideri ogni persona un essere umano a sé, pur sapendo per prassi, per averci messo naso, mani, intelletto, sentimento, che questo vale anche per gli handicappati (sì lo so, inizia a scricchiolare tutto), ho sempre mantenuto delle riserve in riferimento a un tema così complesso.
Leggendo le tue parole queste riserve (le avevo messe a riposo: non mi occupo più di disabili da circa dieci anni) sono riemerse.

Ricordo un convegno cui avevo partecipato a fine anni novanta che aveva come tema il lutto di genitori di persone disabili. Ricordo lo sgomento, la difficoltà a esprimere un sentimento così tortuoso; dovessi riassumerlo, direi così: amo totalmente mio figlio ma avrei preferito fosse normodotato.

Il centro dove lavoravo era formato da un’equipe molto motivata, quasi eterea nell’adempimento della mission. Si chiamava «Centro modulare», dando al termine «modulare» un’accezione di unicità di singolarità, di eccellenza. Il tutto in modo implicito: quasi interiore, mi verrebbe da dire.
La missione non saprei definirla bene: ci venivano persone con le più disparate patologie
(patologie) e a ciascuna venivano offerte varie attività finalizzate al mantenimento o recupero delle abilità residue, quand’anche agio, benessere, tranquillità, possibilità di essere quello che era.

E io, cosa pensavo, in cosa credevo?
Non lo so ancora. Non ho risposte concrete, certe; convivo col mio sempiterno menù costellato di dubbi, di incertezze.

Facevamo attività a tetraplegici «senza sguardo» (tuo fratello ne ha uno molto comunicativo), senza avere ritorni certi perché mancava la parola, l’intesa: lo sguardo, appunto.
Le attività erano attentamente pensate, scandite, monitorate, motivate da teorie psico-pedagogiche, eppure, sempre, incerte nel feed-back (la solita incerta interpretazione comunicativa, che non fa mai eccezione, nemmeno nella vita, figuriamoci in letteratura).

Leggendo il tuo pezzo ho sentito istanze radicali (leggevo le rivendicazioni di chi pensa la scuola come luogo che risponde a bisogni concreti, dimenticando che, come tutte le istituzioni totali, assoggetta gli utenti alle sue regole anzichenò), posizioni originali, dichiarazioni spietatamente dolorose («faranno una brutta fine»).

Non ricordo nemmeno una parola (l’ho letto una sola volta e voglio mantenere quel che ho sentito, e voglio scrivere in diretta, senza rileggere o correggere) di felicità, di speranza.
Pensare al proprio fratello – o figlio nel caso di tua madre- in corridoio, rende benissimo l’idea di una ferita non sanabile, di una crudeltà forse sottile, ma definitiva. Solo delle merde possono relegare un essere umano in corridoio, solo dei bastardi possono appellarsi all’estetica come strumento di esclusione, mi pareva di intraleggere fra le righe.

E allora?, dirai!
E allora non lo so.
Tu, sì, tu, mi hai tirato fuori queste parole. Tu hai ravanato in zone ormai in quiescenza nella mia testa e nel mio cuore.
Io avevo fatto pace con quelle cose.
Io posso parlare, ne ho diritto: io ho pulito la loro merda, le loro bave; io ho annusato i loro odori, ascoltato le loro urla, visto il nulla e il tutto nei loro occhi che non avevano bocche capaci di pronunciare parole, solo suoni sconnessi.

Io che ho visto quella foto.
Una foto bellissima. Una foto in cui una bella ragazza tutta a puntino, la sorella, si abbassava ad altezza di sguardo del proprio fratello (postura perfetta, da manuale), e che scambiava con lo stesso un bel sorriso (quello di lui si vede, quello di lei s’intuisce).

Un’amica di Padova mi raccontava di un suo amico con sindrome di Down. Era cresciuto con loro in strada, a scuola e poi, a diciotto anni finito il liceo, si era guardato allo specchio e aveva capito che lui era diverso. Era diverso in modo irrimediabile, incolmabile. Era caduto in depressione e si era sentito improvvisamente down.

Non so come chiudere.
Non ricordo più la teoria di fondo: né tua, né mia.
Credo che un disabile sia la paradossale manifestazione carnale che la normalità è un concetto che rasenta la follia.
Credo che si possa amare molto una persona disabile dal momento in cui non si fa finta che non lo sia.

Credo che una delle poche volte in cui ho pensato di intuire la verità, sia stato quando ho fatto il mio primo giorno di tirocinio in un ceod di Venezia. Mi sentivo imbattibile, preparatissimo a qualunque cosa, sorretto da una perfetta superbia (io lavoravo coi tossici, con gente che moriva, cazzo! Cosa vuoi che mi facciano ‘sti quattro mongoli?).

Quando alle nove erano entrati tutti, dopo averli accolti (io tirocinante non dovevo fare niente: solo stare fermo e osservare), ed esserci recati tutti e quindici in sala mensa per la programmazione della giornata, mi sono sentito completamente bloccato, incapace di fare qualsiasi cosa che non fosse respirare. Per ore.
Quel giorno, io che lavoravo con gente che moriva ogni giorno un po’, ero rimasto interdetto da persone che, nonostante tutto, vivevano.

Ciao
Cristiano

La mia risposta.

La mia storia è la storia di una massacrata dall’istituzione. Il suo lavoro su di me non è ancora finito. Mi tormenta ancora, con un’infinità di cose orrende che non ha senso elencare.
Lo so che l’istituzione pensa a sé.

Lo fanno anche le organizzazioni. Se sul mio blog ti capita di leggere qualcosa sul lavoro, sulle redazioni, o se hai letto il primo libro che ho scritto, credo che tu possa vedere – no: «sentire» – quel che scrivo qui sopra.

Sì: solo delle merde possono lasciare delle vite in corridoio.
Mio fratello è stato lasciato in corridoio.
È già meglio che una discarica, lo so.

E speranza non ne ho.
L’esperienza con mio fratello me l’ha levata.
Io non so davvero come potrei averla, Cristiano.

Per la mia vita personale ce l’ho.
Non vedo nero.
Solo che so che battagliare non serve.
Serve magari a incontrare persone, e un incontro – certo – può cambiare la vita.

Se vuoi dirmi che dovrei avere speranza perché c’è gente che nell’handicap lavora con passione entusiasmo partecipazione eccetera, ti dico che lo so anch’io; così come so che fra i giornalisti ci sono molte brave persone.
Ma questo non sposta le cose di una virgola.

Le umiliazioni che si subiscono – e per tutta la vita; l’ultima lunedì mattina, per dirti – sono molto pesanti.
Che il tuo cuore riesca ancora ad amare, a sperare, a battagliare, non sposta le cose di una virgola.
I pinocchi restano pinocchi.

Tu fai differenze fra coloro che hanno sguardo e quelli che non ce l’hanno.
Non so.
Mio fratello non l’aveva, da piccolo.
Aveva paura del vento, e allora io lo portavo fuori e facevo correre il suo passeggino perché il vento lo colpisse in pieno volto.
Lui faticava a respirare, col vento. Ma io dovevo fargli attraversare il vento, scuoterlo.

Gli battevo il ritmo della musica che ascoltavo.
Lo portavo sotto la pioggia.
Gli mettevo le mani un po’ sotto l’acqua calda un po’ sotto l’acqua fredda.

Lo sgridavo, come tutte le sorelle maggiori.
Gli ho dato anche qualche sculaccione.
Gli ho pulito merda vomito e cacca del naso dicendogli «cazzo, Francesco, che schifo, però».

Non gli ho mai nascosto la sua condizione facendo finta di trattarlo da «normale”.
Tutte cose che mi hanno insegnato i miei.
Sì, gravissimo.
Ma secondo te cambia qualcosa per uno che è un po’ meno grave?
Che percorsi di autonomia ha?
Bah.
Non so.
Ci scriverò.
Ci scriverò ancora.
Ne parlerò.

Ciao
Federica