gaber, j.lo. e l’identità

Marco mi ha scritto che il post qui sotto – quello sulla pluralità di declinazioni identitarie (anche fittizie) necessarie a sopportare una contemporaneità che non è più antica e nemmeno più moderna, ma è andata al di là e ci ha lasciato in balia dell’isolamento – gli ha richiamato alla memoria la canzone di Gaber che ho inserito da YouTube.
Il testo è questo.

Mio nonno è sempre mio nonno
è sempre Ambrogio in ogni momento
voglio dire che non ha problemi di comportamento.

Ma io non assomiglio ad Ambrogio
l’interezza non è il mio forte
per essere a mio agio
ho bisogno di una parte.

Per esempio, quando sto in campagna
ed accendo il fuoco nel camino
lentamente raccolgo la legna
e mi muovo come un contadino

e se in treno incontro una donna
io mi invento serio e riservato
faccio quello che parla poco
ma c’ha dietro tutto un passato.

E se mi viene bene
se la parte mi funziona
allora mi sembra di essere una persona.

Qualche volta metto il mio giaccone
grigio verde tipo guerrigliero
me lo metto e ci aggiusto il mio corpo
e già che ci sono anche il mio pensiero

e se invece sto leggendo Hegel
mi concentro, sono tutto preso
non da Hegel, naturalmente
ma dal mio fascino di studioso.

E se mi viene bene
se la parte mi funziona
allora mi sembra di essere una persona.

Mio nonno si è scelto una parte
che non cambia in ogni momento
voglio dire che c’ha un solo comportamento.

Io invece ho sempre bisogno
di una nuova definizione
del resto lo fanno tutti
è una tacita convenzione.

Ma da oggi ho voglia di gridare
che non sono stato mai me stesso
e dichiaro senza pudore
che io recito come un fesso.

E se mi viene bene
se la parte mi funziona
allora mi sembra di essere una persona.

Se un giorno noi cercassimo
chi siamo veramente
ho il sospetto
che non troveremmo niente.

Questo è il Gaber del 1976 – mi scrive – quello che aveva senso.
Sì.
Vero.
Questa canzone mi ha sempre commossa.
Però.
Però, scrivo qui quel che gli ho risposto via mail: quella frase finale – non troveremmo niente – è un virtuosismo di maniera, un espediente strappa-applauso, perché sono parole in cui chiunque può riconoscere non se stesso ma l’altro, il vicino che gli sta sul cazzo.
Mi sembra una conclusione fiacca e senza solidarietà umana.
La sua miseria rispetto a De Andrè, che avrebbe concluso o con l’indignazione del diverso o con lo struggimento dell’uguale, risulta evidente, schiacchiante (Gildo a parte, sì).