le felicità banali

Sono tutta chiusa dentro, cerniere su e bottoni abbottonati.
Ma è come se guardassi alle cose da una nuvoletta di gioia.
Insieme a mia madre, ho portato a pranzo fuori, oggi, mio figlio Giovanni e un suo compagno.
Erano bellissimi.
Si fermavano a ogni incrocio e si davano la mano per attraversare.
Chiacchieravano fitto fitto e non vedevano l’ora di arrivare in pizzeria perché là avrebbero finalmente potuto scambiarsi le figurine dei calciatori e attaccarle sull’album.

A tavola, ho chiesto al compagno di Giovanni di dirmi se i suoi nonni gli hanno raccontato mai qualcosa della guerra.

Parlandomi delle cose del bisnonno – che ogni giorno, mi diceva, scriveva alla moglie una lettera dal fronte: che cosa struggente e romantica, no? – il compagno di Giovanni si è animato, si infervorava, pennellava racconti vibranti e pieni di colore, mentre il prosciutto della pizza gli scendeva un pochino fuori dalla bocca, verso il mento, come per distrazione.

È stato molto bello apprendere delle circonvoluzioni bizzarre della fortuna che hanno salvato la vita al bisnonno; e molto bello è stato il momento in cui tutti ci siamo resi conto che se quel bisnonno, invece di salire – a un certo punto – sul secondo di tre aerei, fosse salito sul primo o sul terzo, quel pranzo che stavamo facendo noi quattro non ci sarebbe mai stato; perché gli altri due aerei erano stati abbattuti.

Sono chiusa, sì. Concentrata. Presa.
Ma ho un bisogno smodato di felicità banali.