il chirurgo plastico e la città-fondale

In piazza Bra, nella mia città, c’è un anfiteatro edificato nel primo secolo dopo Cristo.
In origine non era così «nudo»; aveva un secondo anello, aveva decorazioni.
Ogni singola pietra di cui è composto è stata presa in mano e collocata in situ da mani di uomini di venti secoli fa che hanno faticato molto, immagino, affrontando pioggia e sole, e sollevando leve e manovrando argani.

Ogni pezzo è stato scelto da occhi e da mani di persone che vissero duemila anni fa. Ci son volte che a guardar quelle pietre mi domando – lo so: è un’idiozia – se quelli che le hanno messe là, una di fianco all’altra e una sopra l’altra, erano più simili ai veneti di oggi o ai romani di oggi, o se non c’entravano niente né con gli uni né con gli altri; se erano già un po’ rabbiosi con gli estranei o no…

Mi domando se il clima meteorologico era tanto diverso da ora. Come venivano pagati quegli operai. E se venivano pagati. Cosa s’aspettavano dalla vita. In quale parte di questa città vivevano, che rapporti avevano gli uni con gli altri.

Ogni giorno ci passo davanti.
Nella piazza ci sono transenne di metallo e di legno rosso di gusto thailandese che fanno da recinto alle scenografie di plastica, legno e cartapesta usate per il festival operistico.

Siccome ogni sera c’è un’opera diversa, ogni notte le scenografie vengono portate via dall’anfiteatro e sistemate in questi recinti che riempiono la piazza.
Sfingi colossali e deità egizie per l’Aida.
Guerrieri monumentali con lance gigantesche per il Trovatore.
Tempietti riccioluti di plastica translucida verdastra a forma di lanterna, per la Turandot.
Montagne di cartapesta e paraventi di carta di riso per la Madama Butterfly.
Pannelli giganti e finte case per la Carmen.

A rotazione, scompaiono e riappaiono sulla piazza, tra i giardini e l’Arena; tra i giardini e la scalinata della sede del Comune; tra i gradini del Municipio dove mi son sposata e la facciata della Gran Guardia.
Sicché uno che – seduto – volesse guardare l’anfiteatro, o Palazzo Barbieri, o la Gran Guardia, non potrebbe vedere che scene decontestualizzate, materiali finti.

Una specie di Gardaland, insomma.
O forse, trattandosi di Verona, una specie di casa di Giulietta. Integralmente falsa, nel senso che mai nessuna Giulietta abitò lì né mai gettò la sua treccia dal balcone. O anche una casa di Romeo, che meno falsità non ha.

Ci passo ogni giorno, dunque.
E ogni giorno ci sono turisti che si fanno fotografare davanti ai guerrieri ai tempietti ai paraventi alle sfingi.
Clic. Clic. Clic.
Sorridono, alzano la manina.
«Vedi? Qui ero a Verona».
«E cosa sono quelle sfingi?».
«Ah, scenografie, penso».

Io non vedo nessuno che si fa fotografare davanti all’Arena.
A parte il fatto che l’Arena è chiusa alla vista, d’accordo, non vedo nessuno che cerca un’inquadratura tale per cui si possa vedere un pezzetto di un manufatto edificato nel primo secolo dopo Cristo e ancora in piedi, ancora funzionante, ancora utilizzato.

Non è un’esagerazione. Lo giuro: durante il festival operistico non ho mai visto nessuno farsi fotografare sullo sfondo dell’Arena.

E allora penso che tutto ciò di cui chiunque ha bisogno è una scenografia sul cui sfondo collocare un’immaginazione di sé.
Magari un sé-attore-di-un-reality.
Con le scenografie in mezzo alla piazza siamo un po’ tutti dentro un reality show, e la nostra macchinetta fotografica è il succedaneo della telecamera che ci piacerebbe/troveremmo normale immortalasse la nostra immagine davanti a un fondale finto e immaginario.

Ci mettono a disposizione un teatrino, e noi percepiamo la finzione e ci immergiamo in essa come se stessimo inscenando il nostro piccolo personale spettacolo in cui giochiamo a sentirci qualcuno.

È un po’ come una foto con un divo, o con un Fabrizio Corona con codino e tatuaggi: nessuno potrebbe mai credere che siamo loro amici, e d’altronde se ci facciamo fotografare con loro non è per asseverare la bugia che loro sono nostri compagni di merende.
Lo facciamo per dire a noi stessi che siamo stati vicino al divo, che siamo stati momentaneamente tangenziali alla fama, per sognarci interni a uno spettacolo a cui in fondo ci fan credere sia nostro diritto partecipare, visto che per un caso indipendente dai nostri meriti e dai demeriti altrui L’isola dei famosi e il Grande fratello e la Fattoria, o gli altri reality che non so, ci sono stati negati.

Ciò che è vero, materialmente vero, storicamente vero, architettonicamente significativo, strutturalmente narrativo; ciò che parla di cose che sono state e sono; ciò che ha autentica presenza non ci interessa.
Non ci parla.
E se ci parla, non abbiamo voglia di ascoltarlo.

Dobbiamo farci la foto col guerriero, col tempietto verde.
E quando andiamo a casa sarà quella a testimoniare che siamo stati a Verona.
Perché Verona – e chissà quante altre città che hanno colto nel «decoro» l’opportunità di ricrearsi finte, «privatizzate», edulcorate – non è che un ologramma, una proiezione di uno spettacolo televisivo.
La sua vita e la sua storia non interessano a nessuno, tant’è vero che è famosa per cose finte: la casa e la tomba di Giulietta, la casa di Romeo, le scenografie areniane. Perfino il bus turistico si chiama Romeo.

La città ha conservato la leggibilità della configurazione urbanistica romana: il colle, il teatro romano a ridosso del fiume, sulle pendici del colle, e il ponte di fronte, e poi sempre dritto il decumano che s’incrociava col cardo all’altezza di piazza Erbe.
Ed è ben attestata anche la città medievale, per esempio.
Ma nessun itinerario turistico comunale prevede l’illustrazione di questo genere di vestigia.

In Arena c’è Brignano, viene la Clerici, passa Ligabue, c’è Sting, il Festivalbar, la Carlucci, Massimo Ghini, Irene Grandi.
Ma l’Arena non la vede praticamente nessuno.
È un supporto scenico che serve a inventarsi cose nuove che pretendono di diventare tradizione, com’è il caso – a me sembra – di questo Opera Award che faranno il 31 agosto con Katia Ricciarelli per premiare i cantanti lirici (che per quest’anno per la prima volta nella storia del festival areniano che rimonta al 1913 hanno l’amplificazione, di talché manco una voce bella e forte serve più).

L’Arena è un supporto scenico e basta.
Come tutta la città, che d’altra parte è permanentemente dovunque piena di cantieri nella finzione che l’amministrazione cerchi di farla più bella.
E invece (a parte il fatto che la moltiplicazione dei cantieri per lavori stradali, paralizzando il traffico, può anche servire a giustificare quella controversa «grande opera» che va sotto il nome di traforo delle Torricelle ma in realtà è un’autostrada urbana che attrarrà auto e camion), quel che si ottiene è che la città non è mai a posto, mai finita, mai se stessa.

È sempre sotto i ferri di un chirurgo estetico che, appena s’è cicatrizzato il taglio per la mastoplastica additiva, si mette a lavorare alla liposuzione, e poi c’è la blefaroplastica, e nel frattempo, per coprire i lividi intorno agli occhi, ci si compra l’occhialone da sole dell’ultimo tipo, e poi te li togli e puoi finalmente tornare in sala operatoria a togliere la ciccia dalla pancia, e dopo tocca alle culotte de cheval…

E non si finisce mai.
Tutti a dire a se stessi «oh, come sta diventando bella, questa città. Quante cose sta facendo, l’amministrazione».
E invece non si finirà mai.
Tenerci in questa situazione di attesa e sospensione serve a farci persuasi che si fa qualcosa, che imperano la politica del fare, la logica dei «sì» invece che dei «no».
A farci credere che «costruiamo».

Ma quel che si costruisce non è che una finzione, un fondale, una scenografia sulla quale proiettare la nostra immagine di «personaggi» di uno show, di un film, di una soap.
Passa Ligabue, e urliamo.
Passa Ghini coi capelli tinti, e lo fotografiamo.
Sì, ci siamo anche noi.
In quello show business c’è spazio anche per me.
Ho una foto con Scamarcio, vieni a vederla.

Così, la città smette di essere città, e proprio nel momento in cui nega a se stessa ogni possibilità di vivere un’autentica identità diventa – paradossalmente – luogo identitario: è lo scenario mio, straniero.
Vàttene.
Questo è il palcoscenico che spetta a me.

La città diventa pre-testo per una narrazione di città che non ha anima al di fuori di quella mercantile che insegue parole come «indotto», concetti come «visibilità», idee come «competizione fra territori».
È una narrazione che non ha storia ma finge di avere identità.
E l’operazione, ideologicamente, rende.

Salvo il fatto che poco alla volta ci aliena tutti quanti, ci stacca dalla realtà pezzo dopo pezzo.
Ci lascia orfani.
Bestie feroci, a difendere il nostro posto nello show dalle grinfie di qualunque usurpatore.