sakineh, il personaggio e l’ideologia del simbolo

Ecco cosa diceva, l’altro ieri, l’assessore alle pari opportunità del mio Comune (assessore maschio dal cognome estremamente impegnativo: Di Dio) a proposito delle 1.682 firme che il suo assessorato ha raccolto perché l’iraniana Sakineh, accusata di avere ucciso il marito, abbia salva la vita:

«Per noi, come per il ministero degli Esteri italiano e per tutti i Paesi che si sono mobilitati, questa donna è diventata un simbolo: il simbolo della battaglia per l’affermazione dei diritti umani fondamentali, a partire dal diritto alla vita; il simbolo della necessità di ricercare il dialogo ad ogni costo, perché solo dal dialogo può nascere la pacifica convivenza; il simbolo, infine, del rispetto delle diverse identità politiche, culturali e religiose di ogni popolo».

Sono sconcertata dal fatto che le storie delle persone non abbiano alcun riconoscimento a meno che la percezione collettiva non le renda simbolo.

È l’altra faccia – mi sembra – della «personaggizzazione» che investe qualunque area del discorso pubblico, dalla tv ai giornali, che in effetti – e qui penso in particolare a Repubblica – fanno ampio utilizzo delle figure simboliche dei «testimonial», soprattutto come firmatari delle petizioni nelle quali si realizza ciò che chiamo la democrazia della paletta.

Mi sconcertano in modo particolare la leggerezza e la serenità d’animo con le quali – nel momento stesso in cui si nega l’identità individuale di una persona proprio perché la si rende simbolo indifferenziato di un tema scelto a piacere, e possibilmente fra quelli più «sexy» per la cosiddetta opinione pubblica – si finge di tributare a questa singola persona il massimo dell’onore possibile.

In altre parole: o rinunci a essere te stesso e ti pieghi a essere quel che in te ho il piacere di vedere io, oppure possono liberamente impiccarti, lapidarti, condannarti a morte, licenziarti, farti ammalare, scorticarti vivo o farti qualunque altra cosa, perché per me – e per tutti – semplicemente non esisti.

Mi viene in mente che il primo a capire che questa era una strategia comunicativa vincente è stato Maurizio Costanzo quando, forse intuendo che la politica aveva perso forza propulsiva, ha rivoluzionato il modo di fare televisione rendendo personaggi-simbolo persone che, avendo problemi anche seri e gravi, andavano in tv da lui per tentare di risolverli.

Era diventato una specie di Paperinik, Costanzo.
Svolgeva – e l’ha svolta per anni – un’opera di militanza professionale che al momento poteva bene apparire meritoria, ma in realtà azzerava (o approfittava del sopravveniente azzeramento di) qualunque possibile forma di rappresentatività della politica e faceva del giornalista, in quanto esposto e visibile, un veicolo preferenziale per la soluzione di grovigli e dolori di persone che diventavano simbolo.

Sulle poltrone rosse c’era il malato di Aids che – spesso mostrandosi a viso aperto – diventava simbolo dell’«Aids-ità»; c’era l’handicappato che diventava simbolo dell’«handicappità»; c’era il gay che diventava simbolo della «gaytà»; la madre del tossicodipendente che diventava simbolo della «madreditossicodipendentità»…

In mezzo, lui, Costanzo.

Ora i mediatori del simbolo si sono moltiplicati, e il potere di fare di una persona un personaggio ce l’hanno i giornali in se stessi, i responsabili delle trasmissioni televisive; ce l’hanno i «capi» delle compagnie di giro che passeggiano per grappoli di programmi tv sostanzialmente omogenei fra loro (non so: Fazio-Dandini, per dire).

E un assessore di una città alla periferia dell’imperino berlusconian-leghista può permettersi di dire che Sakineh è simbolo, per esempio, non della lotta alla pena di morte (o magari alla lapidazione), ma – l’inversione di prospettiva non mi pare affatto marginale – del «diritto alla vita».
Come se Sakineh non fosse che uno di quegli embrioni che secondo gli antiabortisti sono tutti quanti esseri umani, ancora prima di attaccarsi all’utero di una donna (giacché gli antiabortisti sono menti così fini da misconoscere la differenza fra fecondazione e impianto).

Un assessore di una città alla periferia dell’imperino può dire che una donna accusata di avere ucciso il marito è il simbolo «della necessità di ricercare il dialogo ad ogni costo, perché solo dal dialogo può nascere la pacifica convivenza» (tra marito e moglie?).

Un assessore di una città in cui i «diversi» vengono semplicemente espulsi ed estromessi nell’esatto istante in cui escono dal cono d’ombra dei radar può dire che Sakineh è «il simbolo, infine, del rispetto delle diverse identità politiche, culturali e religiose di ogni popolo».
Senza contare che se proprio si volesse, per puro puntiglio polemico, spingere alle estreme conseguenze logiche l’affermazione del «rispetto delle diverse identità politiche, culturali e religiose di ogni popolo», be’, allora dovremmo – sto esagerando, mi è chiaro – assumere che l’identità del popolo iraniano giudica tradizionalmente accettabile, probabilmente, anche la lapidazione.

Ora.
Così come Saviano è il simbolo del Bene contro il Male – che egli lo voglia oppure no, anche se mi sento di dire che da qui vedo in lui, su questo punto, pochi segni di disagio (ma magari mi sbaglio) – così come Grillo è il simbolo di quella vulgata modernista che vuole i politici «miei dipendenti»; così come Marchionne è il simbolo dell’ideologia della morte del conflitto sociale e dell’armoniosa comunione di interessi fra padroni e operai, ora Sakineh è il simbolo di quel che si vuole.

Perché lei non conta, è inessenziale, è un ologramma, un niente, un pezzo di carta che non ha storia, non ha identità, non ha sé.
Sakineh è solo altrui, come esclusivamente altrui era Eluana Englaro.
Specularmente, invece, Saviano, Grillo e Marchionne rendono «altrui» non se stessi ma gli altri, coloro ai quali essi si rivolgono nell’adempimento delle loro diverse funzioni per così dire politico-sociali, o più semplicemente collettive.
I destinatari dei loro messaggi diventano – simbolicamente, è ovvio – «proprietà loro»: diventano «savianiani», «grillini», «marchionniani».

L’ideologia del testimonial ha inquinato le falde acquifere della trasmissione del sapere e del senso delle parole fino a profondità ormai vicine al centro della terra, direi.
Le persone e le loro storie vere, cariche di carne e di pelle, non interessano a nessuno.
C’è solo il testimonial, pietra preziosa nella corolla di exempla eroici o antieroici di cui abbiamo bisogno per farne l’uso che nell’antica Roma si faceva dei circenses.

Quelle persone e quelle storie, a me sembra, trovano ancora un loro spazio nei libri, e non necessariamente nei libri autobiografici; la finzione letteraria può contenere molta più autenticità di una pagina di giornale.
Eppure, giusto per avere un’ulteriore dimostrazione di come la «personaggizzazione» abbia devastato il paesaggio, leggete cosa dice qui il personaggio-Odifreddi (a proposito del dibattito-querelle Baricco-Scalfari, ma l’occasione è totalmente inessenziale):

«A me sembra che gli umanisti non si rendano conto che buona parte della letteratura è solo divertimento e svago, appunto come i centri commerciali e i reality.

Ora, lo svago è sacrosanto, ma se lo può permettere solo chi ha tempo da perdere.

Non un Newton, ad esempio, che andò una sola volta a teatro, e scappò prima della fine.
Non un Darwin, che trovava Shakespeare «cosí insopportabilmente pesante da trarne disgusto».
Non i molti premi Nobel o medaglie Fields, che ho sentito con le mie orecchie affermare di non avere interesse a leggere «storie inventate».
E non un barbaro impegnato a creare un nuovo mondo, come appunto sono quelli citati da Baricco.

E poi, più generalmente, non c’è forse il rischio che chi si abitua a sentir raccontare storie, alla fine diventi facile preda dei contastorie? L’esperienza, purtroppo, sembrerebbe proprio suggerire di sí.

Ecco cosa succede, valorizzando la visibilità di persone che marginalizzano la loro autentica occupazione, quella con cui si guadagnavano da vivere, e diventano personaggi-vati-opinionisti: che si scopre non solo che i romanzi non son roba da gente seria ma passatempi per cazzari, ma anche che se adesso ci beviamo le fole di qualunque imbonitore, be’, la colpa è solo dei romanzieri.