e non sparatele addosso!

A proposito della vicenda di Paola, di cui ho detto qualche post più giù in due occasioni, Guia Soncini scrive sul suo sito replicando a un commento al suo pezzo:

Se ti pagano sei euro (a cosa? a pezzo? al giorno? al mese?), vali sei euro.
Se pensi di valere di più, vai a fare altro.
La mia colf ne prende otto all’ora, per dire.
A volte le cose sono più semplici di come te le ha fatte credere la tua mamma l’ultima volta che ti ha detto che eri un genio incompreso e che se questo fosse un paese meritocratico saresti già direttore del Corriere.

La sua nitida fiducia nell’infallibilità del mercato che – lui sì, eccheccazzo – sa dare il giusto valore alle persone, e non risente di condizionamenti, pressioni, valutazioni di carattere non economico, ma è lì, totem divino che spartisce i meriti e i demeriti in modo così corretto ed equo da condurre l’ateo a credere nell’esistenza di dio, mi lascia francamente perplessa.
No: assai più che semplicemente perplessa.

Ma il tono, il tono della scafatona che prende Paola per un’imbecille che pensa di valere perché gliel’ha detto mammina, beh, quello mi pare proprio brutto.

Ammettiamo che sia esattamente così: Paola è convinta di valere perché gliel’ha detto mammina.
In questa situazione, il caso della quarantenne Paola sarebbe drammatico, no?
Eppure, noi siamo autorizzati a sputarle in faccia dalla sommità del nostro scranno.

Poniamo invece il caso che Paola non sia brava.
Cosa facciamo? Lo scriviamo sui nostri siti e i nostri blog richiamando per soprammercato l’esistenza delle nostre colf?

Proviamo a pensare che, invece, Paola sia brava veramente: chi siamo noi per dire «ehi, ragazza, guarda che se ti danno sei euro vali sei euro»?

Detta più chiara: io non valgo la cifra del mio stipendio.
Il mio stipendio paga il tempo e il lavoro che dedico all’azienda per cui lavoro.
Punto.

La misura della mia identità e del mio valore è una faccenduola appena un po’ più complessa.
E quel che vale per me vale pure per Paola.
Cazzo.