femmine, modelli, merito e fuffa gelmina

Volevo scrivere tutt’altro; cose a margine di una nuotata nella pausa pranzo e di una trasmissione radiofonica che ho ascoltato su Radio3 tornando al lavoro dalla piscina.
Aveva a che fare con la femminilità, e le veline, e le ragazze che, vendendo il loro corpo per trarne qualche vantaggio, i più criticano con l’acrimonia dei giusti, e altri difendono sostenendo che esse siano vittime di un modello culturale.

Avrei avuto da dire che la consapevolezza della propria identità di genere e della sacralità del proprio corpo – niente a che vedere con la religione – è in relazione non solo con i modelli culturali, ma anche con la pazienza con cui si sa attendere se stessi (la qual cosa non dipende solo dagli show tivù). Che insomma – e non per ridurne la portata – non è solo una faccenda di tv; ma forse anche una questione da psicoanalisti.

Avrei voluto argomentarla un po’ meglio, questa cosa, perché per ora è un po’ appesa là. L’ho solo vista sfrecciare davanti ai miei occhi, al di qua del parabrezza, mentre stavo guidando.

Invece, ecco che vado su Repubblica.it e mi colpisce una frase della Gelmini:

«Vedere gli studenti, i giovani manifestare a fianco dei pensionati mi fa uno strano effetto, come quando vedo gli studenti, i professori e i baroni manifestare dalla stessa parte (…). È un paradosso. Sappiamo che l’università è composta anche da manifestanti, ma vorrei ricordare che sono molti di più i ragazzi che intendono studiare e che regolarmente si recano negli atenei a sostenere gli esami e vogliono un’università del merito, che spenda bene i soldi dei contribuenti, e dove l’autonomia venga coniugata con la responsabilità delle scelte».

E allora m’è venuta voglia di dire che non capisco perché mai ci dovrebbe essere qualcosa di strano nel vedere gli studenti manifestare accanto ai pensionati; perché mai un ministro usi un’argomentazione senza spiegarne il senso, ma solo per pennellare un’immagine suggestiva la cui apparente ma inspiegata ovvietà non consente alcuna obiezione; perché studenti, professori e «baroni» (è delizioso vedere che il potere si renda conto dell’esistenza dei «baroni» e che ne parli in tono dispregiativo; incredibilmente delizioso) devono per forza essere su sponde diverse, anche se, per esempio, dovessero per ragioni diverse ritenere che la riforma distrugge il luogo di lavoro (okay, gli studenti non lavorano, ma ci siamo capiti) di tutti e tre.

Non capisco perché un ministro possa essere così sciocco da fare dei «manifestanti» una parte sociale non contingente, ma dotata di identità propria, stabile e comunitaria; come se i «manifestanti» non fossero coloro che manifestano quando se ne dà un motivo, anche se non condivisibile, ma un soggetto collettivo permanente e dotato perfino di capacità negoziale.

Non capisco perché un ministro possa porsi la questione della quantità – la stessa che si pone Berlusconi sostenendo che due milioni di persone in piazza, facciamo, non sono mica la maggioranza del Paese, eccheccazzo – come se la politica non fosse l’arte di negoziare fra posizioni differenti, tenendole il più possibile in conto tutte, soprattutto quando sono ben rappresentate ancorché non maggioritarie.

Tra l’altro, non è – purtroppo – obbligatorio avere una consapevolezza politica; e quindi, dal punto di vista di un ministro, potrebbe perfino essere deleterio annettere al gruppone maggioritario dei «bravi» coloro che semplicemente non si pongono il problema di guardare al mondo con occhio critico, perché questo non depone necessariamente a favore del loro buon talento di studenti.

Non capisco cosa conduca un ministro a pensare che valga la sottaciuta equazione semplicistica «chi manifesta non vuole studiare».
Non capisco cosa le consenta di dire che chi non è andato a manifestare sia per definizione non solo d’accordo con lei, ma anche a favore di «un’università del merito» (che, per carità, basta intendersi su cos’è il «merito» e magari siamo anche tutti d’accordo, alla fine), e addirittura convinto che tra lei ministro e il mitico merito esista una qualche relazione di corrispondenza biunivoca.

Tutto questo, in fondo, c’entra anche un po’ con quello che inizialmente avrei voluto scrivere.
Perché se il modello culturale avesse spinto la Gelmini in direzioni più smaccatamente edonistico-televisive, forse a quest’ora la sua professione formale poteva – chissà – essere un’altra.