annusarsi

Primo giorno nella casina nuova.
L’Italia e l’Irlanda – la mia Italia e questo frantume d’Irlanda – hanno odori diversi, fanno rumori diversi.
C’è l’odore della pittura alle pareti, qui. Fortissimo. È tinta lavabile, rende i muri un po’ lucidi.
Hanno riverniciato anche le porte interne.
C’è l’odore della moquette, anche.
Il caffè ha un profumo diverso.

C’è il rumore del motore elettrico delle docce. Non capisco perché qui è tutto elettrico, sembra che il gas non esista.
È un rumore forte. C’è anche a casa di Rosemary, a Dublino.
In bagno non tengono nemmeno una presa, per ragioni di sicurezza, e poi ci trovi il motore della doccia; non ho idea se serva a pompare l’acqua o a scaldarla, ma mi pare più probabile la prima ipotesi, poiché in genere esistono anche scaldabagni, ovviamente elettrici.

Qui, per le strade non c’è quell’odore di aglio e spezie che si sente a Dublino in alcune vie.
Ristoranti ce ne son pochi, e non so bene cosa facciano da mangiare.
Probabilmente salmone, visto che ogni tratto del fiume, poco distante da questa casina, ha una targa che identifica il «settore» nel quale ci si trova e indica il luogo nel quale ci si può dotare, pagandola, di una licenza giornaliera di pesca.

Se il tè avesse un odore si potrebbe sentire l’odore di tè, forse.
Ma non hanno l’aria di fare salotto, da queste parti.
Già è strano che a Dublino i quartieri siano luoghi nei quali una casa segue l’altra, senza alcun negozio, senza un bar, senza un’attività commerciale; ma là, almeno, è una città. Qui le case sono funghetti in cui chiunque sembra condurre una vita che non ha niente di sociale.
Nei loro giardinetti anteriori piazzano l’auto, e si acquattano dietro tendine merlettate, leziose.

Mi manca l’odore a cui sono abituata.
Forse è l’odore del gas di scarico.
Tendo sempre ad annusarmi i polsi per ricordarmi del profumo che indosso.
Qui sta diventando un’abitudine più simile a un tic.
È come guardarsi nelle vetrine per confermare a se stessi che la nostra apparenza ci corrisponde.
Il profumo è identità.
Annusarsi è sentirsi, nel senso di «provare se stessi».

C’è il rumore del vento, qui. Forte, fortissimo.
E nel silenzio senti anche il rumore del frigo, o il volo di un uccello, o il quack di un’anatra lontana.

No.
Io non posso emigrare.
Posso solo muovermi.
Essere un po’ in un posto e un po’ in un altro; essere in movimento e – da ferma – in attesa di potermi nuovamente muovere.

E – sentendomi come un palloncino che ha un filo attaccato a un ancoraggio ma salendo salendo ha dimenticato dov’è il paletto a cui il filo è fissato – faccio perfino fatica a scrivere in italiano. Ho trovato un sacco di errori nella prima stesura di questo breve post.