le inchieste, il brand, la complessità

Qui Christian Raimo mi chiedeva questo:

Il libro è pieno di esempi di mediocre o pessimo giornalismo in Italia. Tanto che forse alla fine del libro ci si sente molto più consapevoli ma forse anche più disillusi. Ci faresti qualche esempio in controtendenza? Dei modelli di giornalismo a cui guardi per il tuo mestiere quotidiano?

Come contributo alla specificazione di ciò che intendo quando parlo di brand, e di dicotomia buoni-cattivi (ciò che negli ultimi giorni ha provocato qualche movimento qui, in altri blog e anche un pochino su Facebook) non è insensato che riporti la mia risposta.

Eccola.

I modelli non hanno nomi conosciuti.
E non lo dico per il piacere di apparire controcorrente: è perfettamente coerente con la considerazione che sviluppo ampiamente nel libro, ovvero che l’unica inchiesta alla quale si tributa una qualche chance di successo è quella firmata dal giornalista che diventa un «marchio».

Solo che per essere all’altezza della propria brandizzazione si è costretti a dimenticare la complessità, a trasformarsi in alfieri del semplice e del semplificato (in definitiva, come dicevo prima, dell’ambiguo).

I modelli sono il corrispondente di un paese della provincia, che – sottopagato e umiliato dentro e fuori dal giornale – resiste alle pressioni di un sindaco che lo minaccia di non dargli più notizie fino a che non smetterà di occuparsi di un tale caso e chiama il direttore il quale magari manco difende il suo giornalista; o il redattore che non rinuncia a provarci, e viene preso in giro, e marginalizzato.

Nel mio lavoro c’è gente che tenta il suicidio, e a volte ci riesce; c’è una morbilità a volte di molto superiore alla media.
E tanti si mettono a ridere, quando dico questo; ripetono che per fare i giornalisti bisogna avere il fisico.
Certo, è vero.
Vedere un morto da vicino per obbligo professionale può essere tremendo.
E non cedere alle pressioni è un’espressione di coraggio che si paga immancabilmente molto cara.

Ma sopportare la propria inutilità, tollerare i soprusi (proprio noi che dovremmo denunciarli) e il silenzio a causa del servilismo o della paura è una realtà con cui fare i conti è dolorosissimo, checché ne pensino i superman dell’informazione che sentono di avere le physique du rôle solo perché chiamano cinismo l’indifferenza per l’essere umano, e considerano le persone alla stregua di numeri o di strumenti che devono consentir loro di guadagnare meriti agli occhi dei loro signori e padroni.