un numero imprecisato di anni in più

La prima volta che ti ho vista avevi i capelli molto lunghi.
Era il 27 giugno 2008; l’ho verificato andando a rileggere il tuo blog.
Eri seduta di fronte a me in pizzeria, dall’altra parte del tavolo.
Chiacchieravi con un ragazzo che stava alla tua sinistra; alto e grosso, se non ricordo male; con una di quelle facce da orsacchiotto buono che hanno tanti ragazzi alti e grossi.

Tu eri minuta, loquace, attenta.
Mi sembravi soddisfatta di te, determinata.

Alla mia destra c’era Giovanni, che non aveva ancora nove anni.
Alla mia sinistra, Piero, amico di lunga militanza.
La luce era abbastanza forte.
Le persone si conoscevano a gruppetti, ma io conoscevo solo Piero e mio figlio.

Il caso mi ha fatto conoscere te, che eri una ragazzina piena di età come ce ne sono poche. Avevi ventitré anni e un numero imprecisato di altri anni in aggiunta: stonavano, ma c’erano.
Erano gli anni in cui avevi fatto qualcosa che valeva doppio, forse.
Il Canada, magari. O qualche supplemento di chiarezza che non saprei dire se fosse esistenziale o progettuale.

Se ti fossi seduta a capotavola, o in mezzo ad altri, non ti avrei conosciuta.

Ti mettesti a parlare con Giovanni.
Il giorno dopo, sul blog, scrivesti che parlare con un novenne, e trovartici anche bene, era tipico della tua personale interpretazione della socialità. Un po’ scherzavi, un po’ no.

Giovanni il giorno dopo mi disse che gli piacevi.
«Carina, quella ragazza di ieri sera».
La sua personale interpretazione della socialità è che se dice che una ragazza è carina vuol dire che il suo cuore scoppia.

Avevi quella speciale sicurezza in se stessi che ci si organizza come un vestito da cerimonia quando si è consapevoli dell’enormità delle risorse che si possiedono e non ci si sente ancora pronti a far vedere la propria fragilità nemmeno in controluce.

E poi non so perché abbiamo continuato a parlarci, a scriverci. Forse in omaggio a Giovanni. Forse perché mi sembrava di somigliarti.

Ci siamo viste sulle Torricelle, ti ricordi?
Avevi i calzoni corti, e ne uscivano due belle gambe lunghe e ben tornite.
Stavi bene, avevi la forza di chi ha attraversato il fuoco e si è ustionato poco.

Eri aspra, esigente, severa; volevi il massimo da te.
L’hai avuto, sai.
Hai sempre parlato di quel che ti succedeva, ma non ci mettevi niente di quell’ottuso vitalismo disperato che somiglia alla tragica felicità obbligata degli anziani che festeggiano il Natale in una casa di riposo.

E così, quando si trattava di te la questione non è mai stata la tensione tra speranza e disperazione.
Tu non sei mai stata la tua malattia.
Non hai mai chiuso le porte del mondo.
Hai saputo abbassare la voce, ma non hai mai perso la capacità di alzarla.

Sei sempre rimasta nel mondo.
Il mondo ha continuato a significare qualcosa, per te.
E accanto a te hai avuto chi sa cosa meritavi; e il mondo non te l’hanno mai portato via.
Sei una donna solida, di quelle per le quali un uomo avrebbe dovuto fare follie.
Sei una donna che sa chiedere aiuto; e da qualche parte, nel mondo, c’è un uomo che non sa quel che gli è stato tolto.

Sei rimasta viva con silenziosa caparbietà, senza rivendicazione.
Noi che ricevevamo le tue mail avevamo capito, credo.
Ma capire non basta mai.

Non so cosa c’è di là.
Non so se c’è qualcosa, o qualcuno.
Se c’è qualcosa, però, salutami mio padre. Salutami mio zio.
E salutami anche qualcuno di cui avevo trovato il coraggio di parlarti non so perché.
È piccolo, ma tu hai la vista lunga e so che lo trovi.
Quando non sai che fare, cullalo un po’.

Una carezza, ragazza.
Ti vedo scalciare da qua.