lacrime e loden: è di moda il moral-pop

Le lacrime del ministro Elsa Fornero, che durante la conferenza stampa per la presentazione dei provvedimenti non è riuscita a pronunciare la parola «sacrifici» poiché è scoppiata a piangere, tengono banco da due giorni.

Ne ho letto esegesi di vario tipo.

Marina Terragni, sostenendo che la Fornero è «la ministra più bella del mondo», lega qui la questione all’esistenza di una specificità femminile, all’inesistenza della pretesa dicotomia fra ruolo pubblico e sentimenti privati, all’evidenziarsi della «compassione» dopo «un ventennio di sentimenti ad personam», alla (ri)comparsa dell’«enorme peso della responsabilità».

Mi infastidisce assai l’uso della categoria estetica del «bello» per significare qualità pretesamente morali. E francamente, trovo che Elsa Fornero – a voler usare l’aggettivo nel suo valore più immediato e banale – bella non possa esser definita. Interessante, direi. Intensa.

Su Repubblica, qui, Barbara Spinelli inserisce la commozione del ministro in un quadro sacrale (anche se c’è una frase il cui significato a me sfugge proprio: «Se il cuore di una persona trema, se quello del buon Samaritano addirittura si spacca alla vista del dolore altrui, vuol dire che alla radice delle emozioni forti, vere, c’è un sapere tecnico del mondo»).

La Spinelli mobilita anche argomenti in se stessi estremamente condivisibili; alti, nobili, colti.
Dice che s’è «visto come il tecnico abbia più cuore (sempre in senso biblico) di tanti politici»; che «è significativo che il ministro si sia bloccato, domenica, su una precisa parola: sacrificio. La diciamo spesso, la pronunciano tanti politici, quasi non accorgendosi che il vocabolo non ha nulla di anodino ma è colmo di gravità, possiede una forza atavica e terribile, è il fondamento stesso delle civiltà: l’atto sacrificale può esser sanguinoso, nei miti o nelle tragedie greche, oppure quando la comunità s’incivilisce è il piccolo sacrificio di sé cui ciascuno consente per ottenere una convivenza solidale tra diversi.

Dice che «nella quarta sura del Corano è un peccato “alterare le parole dai loro luoghi”. Credo che l’incessante alterazione di concetti come sacrificio, riforma, bene comune, etica pubblica, abbia impedito al ministro del Lavoro – un segno dei tempi, quasi – di compitare una locuzione sistematicamente banalizzata, ridivenuta d’un colpo pietra incandescente».

Ma a un certo punto, ecco cosa scrive:

Riformare le pensioni e colpire privilegi travestiti da diritti è giusto, ma fa soffrire pur sempre.

Di qui forse la paralisi momentanea del verbo: al solo balenare della sacra parola, risorge la dimensione mitica del sacrificio, il terrore di vittimizzare qualcuno, la tragedia di dover – per salvare la pòlis – sgozzare il capro espiatorio, l’innocente.

A me viene da domandare cosa Barbara Spinelli intenda con la parola «giusto».
Dice che «riformare le pensioni è giusto», e mette sullo stesso piano quest’azione e quella con la quale si colpiscono «i privilegi travestiti da diritti».

Io vorrei sapere quali sono «i privilegi travestiti da diritti»; il che significa che vorrei sapere, in ultima analisi, quali sono i diritti che a Barbara Spinelli risultano essere affratellati ai «privilegi».

Vorrei sapere come si possa pensare che «riformare le pensioni è giusto» quando poi, poche righe più sotto, si legge che «se solo le pensioni sotto 936 euro saranno indicizzate all’inflazione, tante pensioni basse rattrappiranno come pelle di zigrino».

Ritornando al tema del «capro espiatorio», la Spinelli poi aggiunge che, prima di questo governo,

erano capri gli immigrati, i fuggitivi che giungevano o morivano sui barconi.
E anche, se si va più in profondità: erano i malati terminali che reclamano una morte senza interferenze dello Stato e di lobby religiose.

La nostra scena pubblica è stata dominata, per decenni, dalla logica del sacrificio: solo che esso non coinvolgeva tutti, proprio perché nel lessico del potere svaniva l’idea di un bene disponibile per diversi interessi, credenze.
Solo contava il diritto del più forte, che soppiantava la forza del diritto.

Cioè: fino a che c’era Berlusconi, il sacrificio non coinvolgeva tutti.
Ora, invece, coinvolge tutti.
Ma non c’era scritto, poco più su, che il ministro ha pianto

«perché le misure sono dure per chi ha pensioni grame»?

Non siamo tutti ad avere pensioni grame.
E a sostenere l’affermazione che questo governo impone sacrifici a tutti a me piacerebbe che venisse pure portato qualche argomento.

E invece no.
Pura ideologia. Pura propaganda; sofisticata, certo, perché apparentemente orientata a smascherare la propaganda del regime precedente.

È chiaro che ciò che fa la differenza è il fatto che si sia persuasi oppure no dell’esistenza di una e una sola via per uscire da ciò che nemmeno più so se sia corretto chiamare crisi.
È chiaro che per chi ritiene che la Ue abbia sempre ragione, che le banche hanno sempre ragione, che i diritti siano privilegi che non ci possiamo permettere il lusso di mantenere, che andare in pensione da morti sia un prezzo che è giusto far pagare ad alcuni (perché gli altri, quelli che possono, si faranno pensioni private), il governo Monti sta facendo il suo lavoro (abbastanza) bene e con grande serietà. Serietà da loden, direi.

Ma chiunque fosse punto dalla curiosità di cercare spiegazioni fuori dall’ortodossia, non troverebbe nelle analisi dei pensatori mainstream alcuna suggestione, alcuna guida.
Il leit-motiv è «lo vuole l’Europa», «non possiamo fallire», «non si può uscire dall’euro».

Ora.
Cosa c’entrano le lacrime della Fornero?
C’entrano, c’entrano eccome.
E hanno strettamente a che vedere con il fatto che Monti ha annunciato di voler rinunciare allo «stipendio» che gli spetterebbe in qualità di presidente del Consiglio dei ministri.
C’entrano col loden, col trolley.
C’entrano con il tono di voce basso e beneducato.

C’entrano – e il punto a me sembra qua – con una nuova iconografia pop che si intende porre a giustificazione di una linea politica i cui presupposti si racchiudono nel mantra «lo vuole la Ue».

Sullo stipendio di Monti spendo poche parole.
Voglio solo dire che non tutti i cittadini che diventassero presidente del Consiglio potrebbero permettersi il lusso di rinunciare allo stipendio.
Che l’idea paternalista del «metto il mio denaro a disposizione dello Stato» è un po’ poco per un politico, ancorché «tecnico» (e ancorché, a sentire la Spinelli, dotato di «cuore» ben più di un «politico tradizionale»).

È poco perché un politico potrebbe anche agire politicamente, e – per esempio, posto che l’azione abbia un senso politico e non ricada sotto la fattispecie della filantropia, come io sospetto – stabilire che tutti i ministri rinuncino al compenso.

Questa decisione a me sembra configurare un triste precedente: l’accettazione che chi siede sulla poltrona della presidenza del Consiglio dei ministri possa rinunciare al compenso perché, tanto, ha altri soldi.
Mi sembra che questa cosa conduca dritta dritta all’implicita affermazione che alle cariche politiche si possa un di’ immaginare di dar diritto d’accesso solamente ai ricchi.

Io sono della vecchia scuola, e penso che chiunque svolga un lavoro vada pagato; che la fattispecie del lavoro volontario sia applicabile in un numero di casi estremamente limitato

Ma tant’è: siccome veniamo da Berlusconi, siamo tutti qui a elogiare la nobiltà d’animo di chi – ben provvisto di denaro – rinuncia a uno stipendio, e poco ci interessa che le pensioni si riducano come la pelle di zigrino (che sarà mai, a proposito, la pelle di zigrino?).
In fondo, un sacrificio lo sta facendo anche lui.

Non sei mai contenta, mi dice qualcuno.
Non è vero. So accontentarmi, eccome.
E non mi sfugge il fatto che la figura di Berlusconi era tragicamente al di sotto di qualunque soglia minima di pubblica decenza.
Ma se ho paura degli insetti non è che posso festeggiare quando la mia casa viene infestata di zanzare solo perché nel frattempo se ne sono andati gli scarafaggi.

Ma così fai il gioco degli altri, mi dicono. Così non aiuti la sinistra.
La sinistra?
Monti è di sinistra?
Le banche sono di sinistra?
La Ue è di sinistra?
Ci sarebbe anche un’altra domanda, a dire la verità. Questa: il Pd è di sinistra? Ma non pretenderò di avere una risposta).

Io non ho alcun dubbio sul fatto che le lacrime del ministro Fornero siano state sincere.
Non penso che lei abbia fatto la scena, insomma.
E penso che lei sia sinceramente dispiaciuta.
Penso che le decisioni la addolorino veramente.

Quel che non capisco, però, è quale ragione – a questo punto – la tenga ancora lì.
Lei sa che deve prendere quelle decisioni, che non c’è alternativa, mi ha obiettato qualcuno (l’ha fatto Francesca Melandri, della quale mi piacerebbe tanto condividere il punto di vista).
Forse.
Io non lo so.

Però so che se devo scegliere fra le lacrime di chi decide e le lacrime di chi è costretto a subire una decisione che ne devasta le speranze, io scelgo le lacrime di chi subisce.

So che pretendere la solidarietà del danneggiato è un’operazione tutt’altro che lodevole dal punto di vista morale.
Della moralità delle lacrime del ministro io potrei – e vorrei, a dire il vero – tranquillamente disinteressarmi; ma c’è il fatto che esse sono state giustificate in termini morali: le dispiace, sta male, sente la responsabilità…

Ma se la questione è morale, allora io ne ripropongo un’altra: quanto è morale che colui che si sente «carnefice» – per quanto necessaria e inevitabile possa ritenere la sua azione; e sull’inevitabilità ho già detto – chieda con le lacrime la comprensione a colui che delle sue decisioni è vittima? Quello della pelle di zigrino, per capirci.

Ma tant’è.
Berlusconi se n’è andato da Palazzo Chigi, e a farci andare in pensione da morti sarà una donna che piange.
Massimo rispetto per quelle lacrime.
Ma che lei, per favore, rispetti me: e non mi sbatta in faccia la sua tristezza per una conseguenza che dovrò pagare io.
Un po’ di decenza, per cortesia.