a place called home

Sono tornata a Castleconnell.
La mia casa che non è la mia casa perché l’avevo solo affittata, e come l’avevo fatto io allora altri l’han fatto adesso, era abitata da una mamma con due o tre bambini, non mi ricordo più. Il tavolo era stato spostato a ridosso della finestra.
L’alberello rattrappito che c’era appena a sinistra della porta d’ingresso non c’era più.
Era moribondo già a suo tempo. Posso immaginare che Shane o Bob l’abbiano tagliato.
Ho rivisto lo Shannon, ne ho risentito il rumore.
Gli alberi lungo le sue rive erano spogli, attraverso il ricamo dei rami nudi vedevo l’acqua anche da lontano.
I cigni.
Il parco giochi con una bambina che rideva a squarciagola mentre la madre la spingeva sull’altalena, sotto una pioggerellina che di lì a un attimo sarebbe potuta diventare con la stessa probabilità un diluvio o una sospensione di gocce di umidità riscaldate dal sole tiepido di un improvviso azzurro.

SuperValu.
La farmacia.
La chiesa.
Il castello.

Avrei potuto sentire nostalgia.
E invece no. Mi sono sentita come una che tornava a casa.
Io so che tornerò.

I miei stivali si sono tutti sporcati del fango del prato davanti casa.
Non li ho ancora puliti, non ne ho per ora trovato il coraggio; e così non li ho nemmeno rimessi.

A Ballybunion c’era un vento tremendo. L’oceano era di un colore grigio così intenso e senza luce che non sembrava nemmeno acqua, ma qualcosa di più simile a una specie di fango senza detriti.
Per le strade, nessuno.
Il parchimetro coperto da un cappuccione di plastica. E a me è venuto in mente che in Comune si saranno detti «chi diavolo vuoi che venga qui, sull’oceano, a vedere il mare, in gennaio, con questo tempo».
Così il parcheggio non era da pagare.

Quest’estate su quella spiaggia enorme e lunghissima, ma completamente diversa dalle nostre spiagge adriatiche, c’erano centinaia di persone in costume.
Io avevo il giaccone.
Loro facevano il bagno.