e se fosse mr. o’ singh?

Oggi a Limerick ho incontrato – e in un albergo, per giunta: in un albergo proposto da lui! – il primo irlandese bello che mi sia mai capitato di vedere.
Bello nonostante il fatto che sia un rugbista.
Prima di vederlo, ero focalizzata sull’immagine di un barbapapà modello base, di quelli il cui collo è collassato nello sterno provocando un’estroflessione compensativa del materiale addominale.

Posteggio.
Entro in albergo.
Mi guardo in giro. Nessuno.
Gli scrivo un sms: «Sono nella reception, ho una sciarpa arancione».

Con la coda dell’occhio vedo un tizio che tira fuori il telefonino.
Alzo l’indice e sorrido.
Lui si avvicina. Io confermo di essere io, lui conferma di essere lui.
Son dei bei risultati.

Ci stringiamo la mano e ci sediamo sui divani della reception.
Non mi offre neanche un bicchiere d’acqua, penso.
Poi lo guardo meglio e ci ripenso.
Non è che io abbia tutta questa sete.

Direi, sì, decisamente un bell’uomo.
Lui in divisa da rugbista.
Io vestita come Messner per un Ottomila, a parte la borsa gialla di Avoca che su Messner non vedo bene.
A un certo punto, il suo potentissimo radar termografico registra la circostanza che il sistema-uomo si trova in un interno.
Il sistema-uomo si sente accaldato e si toglie la giacca della tuta con un gesto di liberazione fluido e sfrontato.

«Ah», gli dico. «Sei decisamente irlandese».
Ahahah.
Che bella battuta.
Il decisamente in corsivo mi è venuto benissimo.

Parliamo, diciamo quel che dobbiamo dire, prendiamo appunti, scherziamo sul tempo meteorologico e sul tempo cronologico, ci diamo una scadenza, e in un quarto d’ora o poco più – a meno che il tempo non sia volato, e io non ho le prove per escluderlo – ci ristringiamo la mano e ci salutiamo.

Tre minuti dopo sto già mandando un sms alla mia amica indigena: «Okay. I have just met a HANDSOME Irishman. OMG».
Due secondi dopo arriva un sms di ritorno: «Give him MY number!!! And full concentration on RUGBY balls only».
«He was wearing one of those Irish wedding rings, I am afraid», le rispondo. «But he was gallant, the monster! And he took his jacket off!».

Altro che «full concentration on rugby balls only»… Più in giù delle spalle io neanche avevo guardato.
Mi ero fermata agli occhi – azzurri ma non slavati – ai capelli e all’abbronzatura discreta della faccia.
Potrei dire che era alto, ma non ne ho la certezza.

E così, mi sono ricordata di una cosa.

Un bel po’ di anni fa, ho lavorato per una banca, che mi mandava nei negozi di elettrodomestici.
Le persone che volevano pagare a rate una tv o qualche altra cosa si sedevano davanti a me e al mio ridicolo computer con lo schermo nero e le paroline verdi, mi dicevano quanto prendevano di stipendio, mi facevano vedere la busta paga, mi davano la carta d’identità da fotocopiare, il permesso di soggiorno se era il caso, e io immettevo tutti i dati nel server per approvare oppure no la loro richiesta di finanziamento.

Avevo accesso, sostanzialmente, al registro dei protesti.

Spesso mi capitava di dover dire di no a una richiesta di finanziamento per un pagamento rateale, e a volte facevo finta di credere che ci fosse un problema momentaneo nel computer, invitando il cliente a ritornare.
In questo modo, le persone che avevo davanti avevano una via d’uscita, e non erano costrette a sapere che io sapevo.
Loro capivano che il no aveva un motivo: a chiedere un finanziamento per la lavatrice non sarebbero più tornati (e se l’avessero fatto, la risposta sarebbe stata ugualmente un no), ma almeno avevano la sensazione di non essere stati esposti a un’umiliazione.

Nel periodo in cui facevo base in un negozione di elettrodomestici di un grande centro della provincia, la mia postazione era sistemata dietro al banco delle vendite.
Alle mie spalle c’era una finestra orientata a ovest.

Una sera di tarda primavera, si presentò a chiedere un finanziamento un ragazzo indiano.
Si sedette di fronte a me, e la luce gialla del tramonto gli illuminò di milioni di pagliuzze dorate gli occhi verde scuro.

Mi sembrò così tremendamente bello che rimasi a bocca aperta.
Aveva – mi pare di ricordare – 26 anni.
Lavorava in un’azienda che ammazza pollami e li vende morti. Intendo polli da mangiare.
Non ricordo di aver notato altro se non la luce dentro quegli occhi, e il modo meraviglioso in cui la luce si accordava con il colore dell’incarnato.

Non vidi la sua altezza, la corporatura, il modo in cui era vestito, le mani, le unghie, le spalle.
Non mi feci un’idea della stazza, non riuscii a percepire nessun odore.

Ero travolta da quegli occhi che erano scuri e chiari, come se avessero uno spessore superiore a quello degli occhi normali. Come se fossero stati un vetro spesso attraversato da una luce intensa e calda.

Non mi limitai a fotocopiare la carta d’identità (quanto alla busta paga, quella non la guardai nemmeno): copiai il suo indirizzo e presi nota del suo telefono.
Mi resi conto che nello stesso stabilimento lavorava la sorella di una mia amica, e quando si alzò – si chiamava Singh, ma ho l’impressione che dalle sue parti ci siano più Singh di quanti Marirossi vivano in Italia – decisi che la sera avrei chiamato la mia amica chiedendole di organizzare una pizza con sua sorella, Singh e un po’ di altra gente.
I cellulari non c’erano.
Gli occhi dell’indiano dovevano aspettare.

Per giorni e giorni, la luce di quegli occhi fu un tormento.
Aveva tutti i colori e tutti i significati del mondo.
Parlava di dolcezza, e di sofferenza, e di coraggio.
Erano occhi che avevano visto tutto. Una luce così non poteva che essere la luce di un’anima intensa.
Vedevo rutilare scimitarre; immaginavo turbanti e tigri sinuose.
Se non posso dire che mi sentivo la Perla di Labuan è solo perché credo di essermi impedita di pensarlo.

A mano a mano che si avvicinava la sera della pizza sentivo crescere l’ansia.

E poi arrivò quella sera.
Avevamo messo insieme un gruppetto di persone di molti Paesi. Ci pareva una cosa carina.
Andammo a mangiare la pizza all’aperto.

Quando Singh arrivò, il sole era tramontato, portandosi via tutte le migliaia di pagliuzze dorate dei suoi occhi, di cui la luce bianca dei lampioni metteva in mostra le piccole vene.
Era vestito come un ragazzo che vive in un Paese straniero e non ha la minima idea di che cosa sia il concetto di decoro estetico o di fighetteria secondo le usanze del luogo in cui si trova.
Aveva l’odore di chi si è rotolato nell’aglio e nel curry.

Ci sedemmo tutti a tavola.
Mi accesi una sigaretta. Fumavo ancora.
«Perché fumi?», mi chiese.
«Non lo so», risposi.
«Nel mio Paese una donna non potrebbe fumare», commentò.
Credo di non avergli nemmeno chiesto perché.

Ordinò una pizza piena di cipolla.
A ogni forchettata, spalancava la bocca.
Qualunque piccola parte del boccone precedente fosse rimasta in loco brillava nella luce della notte e nel riverbero dei suoi denti bianchi.
Singh masticava rumorosamente – cosa per la quale sarei capace di uccidere da quando ho coscienza – e i cerchiolini flaccidi della cipolla cotta gli pendevano ai lati della bocca come le lunghe zampe di un grande insetto bollito.

Ecco.
Ora, io penso che dovrei cercare di ricordarmi bene com’era, stasera, la luce nella reception dell’albergo.
Magari la pioggia aveva lasciato in sospensione, nell’aria, piccole particelle di elettricità.