le parole miserabili

Video-choc, lo chiamano. Sia su Repubblica, sia sul Corriere.
Mi riferisco al filmato nel quale si vede la polizia che porta via un bambino di dieci anni dalla scuola, acchiappandolo per braccia e gambe, incurante delle sue proteste e delle sue urla terrorizzate.

È polemica sul video-choc, leggo.

È inqualificabile che con la pretesa di tutelarlo, si delegittimino i sentimenti di un bambino, facendo esplodere in lui un conflitto pubblico, non gestibile nel silenzio di una relazione protetta, fra se stesso, i genitori e le autorità, costringendolo a prendere violentemente atto della sua impotenza, dandogli l’onere di un ricordo così pesante da portare per tutta la vita, creandogli un dolore e un senso di colpa di cui – chissà – potrebbe non avere il coraggio di parlare per molto tempo, trasmutandoli in rabbia e in ferocia.

Ma ancora una volta, non mi piace il modo in cui la stampa tratta la vicenda.

«Video-choc» sposta l’attenzione dai fatti di cui il filmato dà testimonianza alle emozioni di chi guarda le immagini, istituendo una gerarchia in cui ciò che conta di più sono le emozioni di chi guarda.

Comprensibilmente – per la delicatezza del caso, intendo – i dettagli della notizia sono pochi. E come in tutte le occasioni in cui i dettagli della notizia sono pochi (o devono essere pochi perché qualcuno ha deciso così; perché è meglio che le cose non si capiscano veramente), la notizia slitta sul piano dell’emozione del lettore.

Che importa la storia di un bambino come tanti, preso nella morsa fra due genitori che si sono divisi.
Che importa sapere se veramente il bambino è stato portato via per quella sindrome di cui parla la madre, la «sindrome da alienazione parentale» che nemmeno la psichiatria più ortodossa e falegnameristica riconosce esistente.
Che importa interrogarsi sulla violenza delle pretese della psichiatria.
Che importa sapere perché per ricostruire un rapporto col padre – se è veramente questo ciò di cui si parla – un bambino dev’essere portato in un istituto, in un luogo programmaticamente anaffettivo che, per il modo in cui è stato conosciuto, potrà essere solo caricato di significati negativi.

Delle storie vere non importa niente a nessuno.
Abbiamo già un simbolo.

Abbiamo già le fazioni.
Polizia merda. No, polizia che esegue gli ordini.
Magistrato merda. No, magistrato che pensa al bambino.
Mamma merda. No, mamma che conosce il padre del bambino.
Padre merda. No, padre che conosce la madre del bambino.
E via così, senza nessun bisogno di sapere meglio.
Senza sapersi fermare a quel che si vede: e cioè che un bambino (e nessun altro, se è per questo) non si porta via così.

Non è il video ad essere «choc», cari colleghi in cerca di scorciatoie.
Non è «polemica» ciò che ne scaturisce.
È la vita di quel bambino e delle persone che lo amano ad essere uno choc.
E per loro, non per noi che uardiamo dalle nostre case.
È dolore. È rabbia. È disperazione per l’impatto con il potere. È angoscia per la propria impotenza.

Altro che «polemica».

Non si possono usare parole miserabili.
Basta, per favore: non usate più parole miserabili.