elsa e la stampa

Da qualche giorno mi interrogo sul senso della più recente delle uscite della Fornero, quella relativa al fatto che il ministro considera sgradita la presenza dei giornalisti.
Al di là della sua considerazione per il giornalismo e i giornalisti – questo è solo lo strato superficiale, ideologico, propagandistico e «pubblicitario-promozionale» del suo discorso – considero che in quella frase riportata dai maggiori organi di stampa ci sia un intero mondo di idee implicite, nascoste, appena percettibili.

Se si guarda la lista delle sostanze che compongono un medicinale, si troverà che a parte il principio attivo esiste una serie di sostanze definite eccipienti, che servono a rendere assimilabile dall’organismo quel principio attivo.
Il principio attivo non è quasi mai visibile.
Quel che vediamo è l’eccipiente acqua distillata, per esempio.

Ciò a cui io sono interessata è scoprire il «principio attivo» dei discorsi – in questo caso, del discorso della Fornero – nascosto all’interno degli eccipienti che lo rendono spesso inconsapevolmente assimilabile dal nostro organismo.

Ma cos’ha detto, la Fornero?

«Saranno gli errori a fare i titoli: l’ho imparato sulla mia pelle. Dici cose sensate, pacate per quaranta minuti, poi ti scappa una parola – e dico ‘una parola’: non una frase – e quella fa i titoli e determina dibattiti che durano settimane. È lo stato del mondo. È inutile lamentarsi».

Secondo i virgolettati riportati dai maggiori organi di stampa – a cominciare dalla Stampa, quotidiano di Torino, luogo in cui si sono svolti i fatti – le parole del ministro del Lavoro Elsa Fornero sono state queste.
Secondo Repubblica.it e Corriere.it, però, la frase prima citata era preceduta da quest’affermazione:

«Va bene. Ma se è così, sarò costretta a parlare molto più lentamente, perché dovrò pensare ogni parola».

Ma quali sono i fatti?

Il 5 novembre, il ministro ha due appuntamenti apparentemente pubblici.
Il primo, alla Fondazione Croce, con avvocati ed esperti di diritto del lavoro.
Il secondo, di pomeriggio, all’Unione Industriale.

Di mattina, il ministro ottiene che i giornalisti presenti se ne vadano, sostenendo che l’incontro era a porte chiuse.
Di pomeriggio, il ministro chiede che le sia usata la medesima cortesia, ma poiché l’incontro è moderato da un giornalista della Stampa, i giornalisti rifiutano di uscire.

Di qui, la frase riportata nei virgolettati qui sopra.

Quali sono – dunque – i significati evidenti, immediati, delle parole del ministro?
Facciamone un elenco veloce:

  1. L’errore. I giornali scrivono cose sbagliate: tu dici cose sensate, ma ti ritrovi i titoli sulle cose che hai detto improvvidamente, che ti sono scappate;
  2. La vittima. «L’ho imparato sulla mia pelle»: cioè questa è una cosa che mi fa soffrire.
  3. I contenuti. I giornali, titolando in modo capzioso, alimentano dibattiti sul niente che durano settimane, e non lasciano passare i contenuti veramente importanti.
  4. Povera me. Purtroppo funziona così, non ha senso che io mi lamenti. L’unica cosa che posso fare è parlare più lentamente, e pesare ogni parola.

Come in una fialetta di medicinale per un’iniezione, sembrerebbe tutto chiaro e limpido: Fornero «buona», giornalisti «cattivi».
O – vista dall’altra parte – giornalisti «buoni», Fornero «cattiva».
Proviamo a domandarci se le parole del ministro Fornero possono essere lette in controluce.
Quali sono i contenuti impliciti delle parole del ministro Fornero?
Che idea del mondo quella frase lascia passare in trasparenza?
Soffermiamoci sulle stesse quattro aree che abbiamo elencato prima.

Veramente i giornali dicono cose sbagliate? È possibile che questo avvenga in migliaia di occasioni, ma la mia domanda si riferisce esclusivamente al contesto del discorso della Fornero; a quel che c’è dentro le sue parole. Il ministro dice in sostanza: dici cose «sensate, pacate» (interessante anche l’equazione fra sensatezza e pacatezza, come se i contenuti pronunciati con veemenza fossero per definizione «insensati»), parli 40 minuti, e poi fai un errore, e quell’errore fa i titoli.

Dunque, l’errore c’è stato. È possibile che la Fornero si riferisse in modo ellittico a quell’aggettivo «choosy», «schizzinoso», che lei stessa aveva riservato ai giovani italiani, sostenendo che dovessero essere meno schizzinosi – appunto – quando si trattava di accettare un posto di lavoro.

Se fosse così, ne deriverebbe che il ministro considera che aver pronunciato quell’aggettivo sia stato un errore, cosa che fino a quel momento non aveva mai ammesso. Se l’errore a cui fa riferimento fosse invece un altro, significa comunque che ammette che in alcune occasioni ha commesso degli errori.

Niente di grave, ovviamente; ma c’è una conseguenza. Questa: che i giornali non scrivono cose inventate – non, almeno, secondo il ministro, che pure sembrerebbe a tutta prima voler dire il contrario – ma casomai enfatizzano un errore.

Ora: assodato che l’«errore» c’è stato, perché i giornali dovrebbero ignorarlo? Perché il ministro ha detto cose molto più importanti (e pacate!), argomenta indirettamente la Fornero. Domanda: a chi è demandata la responsabilità di decidere quali sono le notizie più importanti? Ai ministri o ai giornalisti?

Se la facoltà di decidere quali sono le notizie degne di pubblicazione, quelle più importanti, fosse demandata ai ministri, non avremmo forse un controllo governativo della stampa come durante il fascismo? È ovvio che i giornalisti possono sbagliare, ci mancherebbe altro. Ma fino a che non verrà stabilito che a scegliere le notizie dev’esser qualcun altro, per porre un limite ai loro errori non abbiamo altro strumento che le leggi civili e penali che regolano la stampa, il diritto di cronaca e la diffamazione.

E se poi il ministro intendesse sostenere che parla da privato cittadino, la critica sarebbe particolarmente più grave, perché si tratta di un privato cittadino che

– ha la facoltà e il potere di influenzare il cambiamento delle leggi (anche quelle che regolano il diritto di cronaca),

– e, usando il suo potere, ha appena estromesso i giornalisti da un incontro che a quanto pare non si sapeva privato ma si immaginava invece pubblico.

In sé, estromettere i giornalisti da un incontro privato è del tutto legittimo. Resta un problema di opportunità: c’è un ministro che parla agli avvocati e agli esperti di diritto del lavoro. Immaginare che i giornalisti ne debbano stare fuori significa solamente che i contenuti che vengono diffusi dal ministro sono «privati».

Ma ha senso che un ministro si rivolga privatamente, senza che i cittadini possano venirne informati, a categorie professionali come gli avvocati e gli esperti del diritto del lavoro, parlando della cosiddetta riforma del cosiddetto mercato del lavoro che – la riforma, dico – porta il suo nome?

Non è, la riforma Fornero, qualcosa che merita al contrario di essere conosciuta dai cittadini? Non è, la riforma Fornero, un contenuto che ha senso diffondere non solo grazie ai comunicati stampa del governo, ma anche assistendo a una conversazione-dibattito nella quale gli avvocati e gli esperti di diritto del lavoro espongono i loro dubbi, le loro obiezioni, le loro valutazioni?

«L’ho imparato sulla mia pelle», dice la Fornero. Dunque, questa è una cosa che mi fa soffrire. L’affermazione postula una natura naif del ministro, un’ingenuità da «comune cittadino» che punta a farci percepire la Fornero «una come noi»; una donna che ha sentimenti, che soffre.

D’altra parte, le cronache ci hanno trasmesso memoria di due occasioni durante le quali la Fornero si è messa a piangere, e dunque questa rivendicazione di ingenuità è particolarmente credibile e coerente con il tipo di personaggio pubblico che – per intenzione o per caso – il ministro incarna.

Ma è veramente così? Se veramente la Fornero fosse naif e senza potere, significherebbe che essere ministri non dà potere, nemmeno sui giornali e sui giornalisti. Ma questo è contrario all’evidenza di ciò che qualunque giornalista conosce. Ed è anche, singolarmente, ciò che ha sempre sostenuto Berlusconi, ovvero che l’architettura istituzionale dello Stato conferisca al capo del potere esecutivo e ai suoi ministri un potere del tutto insoddisfacente.

Che senso ha – poi – riferirsi alla «pelle»? Incidentalmente, il riferimento alla «propria pelle» implica un riferimento non dichiarato alla propria corporeità. La locuzione è certamente di uso comune, ma utilizzarla in un contesto il cui significato intende suggerire la condizione di «vittima» (dei giornalisti, dei loro errori, dei loro arbìtri) del ministro è particolarmente efficace dal punto di vista comunicativo, perché rappresenta un delicato e impercettibile accenno alla femminilità del ministro. Chi parla è una vittima. Ed è una vittima donna.

I giornali, dice dunque la Fornero, titolando in modo improprio, alimentano dibattiti sul niente che durano settimane, e non lasciano passare i contenuti veramente importanti. Questo punto si richiama a ciò che si è detto prima a proposito del controllo governativo della stampa. Ma significa anche che, secondo la Fornero, ciò che di importante lei ha da dire sulla «sua» riforma non è stato trasmesso ai cittadini.

Se è così, perché non convoca un incontro con la stampa nel quale lei stessa spiega per filo e per segno ciò che ha da dire, chiarendo tutti i dubbi? Si potrebbe pensare che non lo faccia perché non si fida dei giornalisti.

Non c’è niente di male, e – anzi – ci sono forse molte buone ragioni.

Ma a questo punto il ministro avrebbe tre possibilità:

– potenziare la struttura ministeriale di comunicazione, «colonizzando» i giornali (ma dubito che questa si possa considerare una soluzione democraticamente accettabile), o

– utilizzare il suo potere affinché venga posto argine all’inaffidabilità dei giornalisti (ma come si fa? C’è già un esame di Stato, per diventare giornalisti, effettuato sotto l’egida eel ministero di Giustizia…), o

– semplicemente smettere di comunicare i contenuti relativi alla sua funzione istituzionale (ma significherebbe che ogni azione del suo ministero dovrebbe essere ricostruita esclusivamente attraverso i retroscena, la conoscenza personale del tal giornalista con la tal fonte: cosa che risulterebbe ancor meno democratica e pluralista delle veline di governo). Non sono tre grandissime soluzioni. Bisogna ammetterlo…

E che cosa sono «i dibattiti che durano settimane»? È evidente che quel che dice il ministro ha un suo fondamento: i giornali costruiscono le loro pagine più sulle dichiarazioni che sulla chiarificazione e sulla spiegazione dei provvedimenti legislativi. Ma sono, i provvedimenti legislativi, abbastanza chiari da poter essere spiegati con sufficiente semplicità?

Potrebbe forse avere un senso ipotizzare che, maggiore è la confusione sui provvedimenti, maggiore sarà la possibilità di testare le reazione dell’opinione pubblica e dei partiti, di cambiare in corso d’opera, di negoziare con le forze politiche?

Tutto questo per dire che – anche assodato che essi rappresentino un modo per tenere i cittadini occupati in altro – è legittima anche l’ipotesi che «i dibattiti sul niente che durano settimane» rappresentino pure un modo per tenere occupati in altro anche i giornalisti (i quali, magari, sono contenti così: ma questo è un altro discorso).

Purtroppo funziona così, dice la Fornero: non ha senso che io mi lamenti. L’unica cosa che posso fare è parlare più lentamente, e pensare ogni parola.

Cosa significa?

In prima battuta, è una rinnovata dichiarazione di impotenza, cosa di cui abbiamo già detto. Cosa implica la dichiarazione di impotenza pronunciata da un ministro? Domandiamoci cosa c’è dentro questa affermazione di impotenza, oltre alle cose dette sopra, ovvero che un ministro, in realtà, il potere ce l’ha, che lamentarne l’assenza è esattamente quel che faceva Berlusconi, e che qui, a dispetto del fatto che quella stessa mattina ha ottenuto che i giornalisti venissero estromessi dal suo incontro con avvocati e giuristi, sta parlando la «vittima-Fornero».

Su un piano istituzionale, c’è la pretesa di far passare il concetto che i giornalisti sono più potenti di un ministro. Ma è veramente così?

Se è veramente così, qual è la fonte di legittimazione del potere asseritamente enorme dei giornalisti? Se la legittimazione del loro potere sta nel fatto che essi sono i soggetti istituzionalmente deputati all’esercizio del diritto di cronaca e alla diffusione delle informazioni la cui conoscenza è un diritto dei cittadini, è difficile trovare qualcosa da eccepire.

Se la fonte di legittimazione del potere asseritamente enorme dei giornalisti si radica invece nella loro vicinanza a pezzi cruciali del potere politico, non dovrebbe, il ministro, prendersela col potere politico invece che con i giornalisti? Cosa significa l’affermazione del ministro «dovrò pensare ogni parola»? Significa che se non ci fossero i giornalisti, lei si sentirebbe libera di pensare meno a quel che dice; che senza i giornalisti una situazione diventa confidenziale. Dunque, a dare «ufficialità» a una situazione sono i giornalisti. Il fatto che la loro sola presenza obblighi una figura istituzionale a pensare di più alle proprie affermazioni prima di pronunciarle – perché, si suppone, la presenza dei giornalisti mette la situazione sotto gli occhi di tutti – è la migliore frase che sia mai stata pronunciata per spiegare il senso e il ruolo dei giornalisti in un Paese democratico.

Peccato solo che a lei sembri un fastidioso effetto collaterale.

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