per rinnovo immagine

C’era una volta un mondo in cui le cose avevano un nome.
Poi, un giorno, arrivò un tornado che si portò via il senso dei nomi.
Era notte, o forse era giorno, perché quando il nostro personaggio si svegliò come da un incubo, si rese conto che mentre lui aveva vissuto l’incubo molte persone avevano continuato a vivere lungo giorni e notti che si erano succeduti l’uno all’altro come sempre; che era lui a non essersi messo alla pari con il tempo.

Forse aveva avuto troppo bisogno di se stesso e s’era perso il mondo esterno.

Fatto sta che questo tale un giorno si alzò dal letto, si stiracchiò, si fece una doccia e uscì di casa.
Camminò e camminò cercando di capire da dove venisse quel senso di estraneità, di lontananza.
Si guardava intorno.
C’erano donne con stivali a punta e tacchi così alti da dover prendere l’ascensore, con unghie quadrate e luuunghe e bombate e luccicanti, con camicie attillate e labbra enormi; uomini con pantaloni strettistrettistretti e scarpe grandi come zattere; c’erano facce conciate dal sole come mummie raggrinzite; c’erano bambine di pochi anni coi capelli fino ai fianchi, biondi e screziati dai colpi di sole; macchine alte come villette di periferia, capelli tinti di tutte le tinte, occhi furiosi dappertutto.

A un certo punto, il suo – l’occhio suo – gli cadde sulla scritta che c’era su un cartello:

Si avvisa la gentile clientela che il ristorante-pizzeria dal giorno 02 gennaio 2013 chiuderà per rinnovo immagine
Ci scusiamo per il disagio
Stiamo lavorando per voi

Grazie
La Direzione

Mentre era concentrato su se stesso c’era stato qualcosa che aveva trasformato il rinnovo dei locali in «rinnovo immagine». Gli venne in mente che nell’incubo aveva visto qualcosa di simile a proposito delle ragazze. «Ragazze immagine», si facevano chiamare, ma non è che tu potessi dire che erano prostitute, perché la «ragazza immagine» è la «ragazza immagine», e se fosse una prostituta forse si chiamerebbe prostituta.

Provò a pensare quale potesse essere la differenza fra il rinnovo di un locale e il rinnovo di un’immagine, e gli venne solo in mente che chi vuole rinnovare l’immagine forse non vuole rinnovare un locale ma mettere quel locale dentro un posto nuovo nell’immaginario di chi ci va. Forse non vuole cambiare i mobili, ma venderti l’illusione di un posto nel mondo.

Si domandò quale mai potesse essere il «disagio» del quale i gestori del locale intendessero volersi scusare.
Non era un ufficio pubblico di cui a causa di lavori si riducevano le dimensioni, così che le persone in coda dovevano sopportare – questo sì – il disagio di accalcarsi l’una sull’altra. Non era una strada pubblica di cui si riduceva il numero di corsie, così che ci si sarebbe dovuti mettere in colonna e rallentare il viaggio.
Era una pizzeria, e – almeno prima dell’incubo – in una pizzeria si poteva decidere liberamente se andare oppure no. Chi la trovava chiusa poteva scegliere di mangiare altrove. Vicino c’erano molte altre pizzerie che probabilmente non avevano nessun disagio da farsi perdonare.
Di quale disagio stavano dunque parlando? Perché i gestori della pizzeria pensavano a se stessi come somministratori necessari di qualche diritto che non poteva essere soddisfatto altrove e, con il «rinnovo immagine», veniva meno?

E lo «stiamo lavorando per voi»…
In genere, prima dell’incubo, lo trovava scritto vicino ai cantieri autostradali: ma quello, davvero, era un servizio pubblico. Non una pizzeria.
Che vantaggio può avere, un cliente, dal fatto che un locale viene rinnovato?
Prima dell’incubo si sarebbe detto che una pizzeria che cambiava l’arredamento lo faceva perché sperava di avere più clienti e di guadagnare di più; lo faceva per sé, insomma, non per i clienti.

La Direzione era un altro punto, poi.
La maiuscolo, Direzione maiuscolo.
Ma se c’era una direzione quanta gente lavorava in quella pizzeria? Cento persone? La direzione non è forse il gestore? E perché la maiuscola? Forse perché una Direzione è più autorevole di una direzione?
E perché una pizzeria dovrebbe aver bisogno di essere autorevole?

Un rumore.
Il tale si girò.
Le sette e un quarto.
Ora di andare al lavoro.
Si alzò dal letto, si stiracchiò, si fece una doccia e uscì di casa.
Camminò e camminò cercando di capire da dove venisse quel senso di estraneità, di lontananza.
Si guardava intorno.
C’erano donne con stivali a punta e tacchi così alti da dover prendere l’ascensore, con unghie quadrate e luuunghe e bombate e luccicanti, con camicie attillate e labbra enormi; uomini con pantaloni strettistrettistretti e scarpe grandi come zattere; c’erano facce conciate dal sole come mummie raggrinzite; c’erano bambine di pochi anni coi capelli fino ai fianchi, biondi e screziati dai colpi di sole; macchine alte come villette di periferia, capelli tinti di tutte le tinte, occhi furiosi dappertutto.

A un certo punto, l’occhio gli cadde sulla scritta che c’era su un cartello, ed ebbe una sensazione di deja-vù.